Bibbia. Assmann cambia idea sull'Esodo: il monoteismo di Mosè fu rivoluzionario
Guido Reni, "Mosè scaglia le tavole della legge"
Il volume Esodo di Jan Assmann, apparso in tedesco nel 2015 e appena tradotto in italiano da Adelphi (pagine 428, euro 42,00), per chi studia e ama la Bibbia, che sia intesa come Torà o come Antico Testamento, è un’affascinante avventura dell’intelligenza in cose che si crede di sapere, perché suonano familiari, ma poi ci si accorge di non sapere veramente, che non sono affatto note né scontate; e forse non le avevamo mai pensate.
Rileggere la storia dell’uscita di Israele dall’Egitto con gli occhi di un egittologo, che da oltre quarant’anni studia questo testo biblico, è una sfida continua: non solo perché gli viene facile capovolgere i cliché negativi con cui l’antica civiltà delle piramidi vi è raffigurata, per motivi ideologici; ma soprattutto perché il suo approccio storico-comparativo nel corso dei decenni ci ha svelato gli elementi di continuità tra gli antichi egizi e gli antichi ebrei.
Le sue provocatorie tesi, che risalgono al Mosè l’egizio del 1997, erano vòlte a smontare l’originalità del messaggio biblico, anzi a denunciarne il carattere intollerante e violento. Quel libro gli attirò addosso una valanga di critiche, per lo più di esperti biblisti, ma suscitò anche un fecondo dibattito scientifico-culturale, che confluì in un’antologia delle migliori obiezioni alle sue tesi, con tanto di replica. Parlo de La distinzione mosaica, del 2003, dove la questione del monoteismo biblico è rimessa a fuoco: forse Mosè non ha inventato la contrapposizione tra vero Dio e falsi dèi, tuttavia il paradigma esclusivo della sua teo-logia, o meglio della sua teo-politica, costituisce quel “prezzo del monoteismo” che ha reso la storia dell’Occidente così sanguinosa e sanguinaria. Altra ondata di polemiche, di severe obiezioni, di critiche pertinenti.
Ora Assmann, tra i vari difetti, ha anche quello di saper ascoltare, di non ignorare i controargomenti alle sue idee e di prendere sul serio le ragioni ossia le ricerche dei colleghi che lo contestano (attitudine non frequente in accademia). Così, più di un decennio dopo, ha elaborato e pubblicato una nuova ricerca, quest’impressionante libro che abbiamo in mano sulla storia dell’esodo biblico, in cui lo studioso non rinnega i capisaldi della sua metodologia incentrata sulla mnemostoria (la storia antica non è una collazione di fatti ma un collage delle memorie che ne sono rimaste e che non sono meno storiche degli eventi ricordati); proprio con tale metodo, in vero, rimette insieme il puzzle delle diverse memorie antiche nonché i contesti che ne hanno motivato l’assemblaggio, stavolta guidato dalla volontà di trovare non i motivi di continuità tre le due culture (l’egizia e l’anticoebraica) ma le evidenti discontinuità, la “rivoluzione” del paradigma mosaico.
Insomma, Assmann è andato al di là di Assmann, ha aggirato la questione un po’ anacronistica del “vero versus falso”, certamente più filosofica che biblica, e si è concentrato sulla complessità del mito dell’esodo ovvero sul suo essere un racconto più grande dello stesso libro biblico. E cosa ha scoperto? Che motore autentico di questo racconto è il duplice ricordo che sta alla base delle religioni monoteiste: l’idea di una liberazione finalizzata a una rivelazione divina, un progetto teo-politico incentrato sul legame di fedeltà – un patto – tra un popolo e il suo Dio, avvinti con filo diretto al punto da fare a meno anche di mediatori, quei re e regine che proprio in Egitto incarnavano, o meglio mediavano, la forza e l’autorità del divino. In altre parole, le storie dell’esodo sono uno straordinario cambio di passo nel mondo antico, una svolta radicale, indipendente da una supposta ed esagerata “età assiale” (divulgata da Jaspers) e che molto deve, piuttosto, alle tragiche vicissitudini dei piccoli regni di Israele e di Giuda, al nord e al sud della terra di Canaan, e delle loro elìte profetiche, sacerdotali e scribali, a cui si devono le diverse redazioni di quei miti fondatori che troviamo nella Bibbia.
È stile dell’egittologo tedesco (con la moglie Aleida, una coppia di public intellectuals internazionali) intrecciare al solito molte prospettive: non si trattiene da riferimenti a Goethe, Heine e Thomas Mann; ama fare excursus sui “mosé” di Freud e Schönberg; non esita a creare o adottare una nuova terminologia per qualificare l’esperienza ebraica al Sinai, tipo: “collettivismo trascendente”, oppure “escarnazione” per dire che la monarchia non incarna più la rappresentanza del divino, ecc. Nondimeno il filo conduttore resta integro e forte, perché fortissima è l’ipotesi, o la tesi, che guida questa ennesima sua rilettura comparativa delle fonti, dove la volontà ricostruttiva del puzzle è vincente su quella decostruttiva.
Ecco la tesi: la narrativa biblica, specie quella sull’esodo, ci consegna un monoteismo della fedeltà, esigente e difficile come tutte le fedeltà, piuttosto che un monoteismo della verità (ovviamente teologica); è quella fedeltà, al cuore del patto, ad inaugurare il binomio amico/nemico, cioè fedele/infedele, con la sua carica di ambiguità perché connessa a una scelta, all’elezione divina (dove il genitivo è sia soggettivo sia oggettivo), e quindi a un atto di amore che la legge viene a sancire. Ciò resta vero anche quando apprendiamo che il modello di tale patto sono i contratti di vassallaggio tra l’impero assiro e i regni israelitici limitrofi, autonomi solo se subordinati; e anche se un grande biblista come Alexander Rofé ha mostrato che, almeno in Deuteronomio, si tratta di contratti ittiti e non assiri (come ripete Assmann). Dettagli. In ogni caso, al centro del racconto dell’esodo, in mezzo tra l’uscita dall’Egitto e la costruzione della Tenda che istituzionalizza la presenza divina a garanzia del patto, sta davvero il dramma dell’infedeltà/fedeltà per antonomasia, l’idolatria del vitello d’oro, e la dura punizione degli idolatri, e contestualmente il dono della legge, sintetizzato nei Dieci Comandamenti.
Lo dico ancora con ironia, tra i difetti dell’esimio egittologo c’è anche la capacità di evitare il moralismo e la falsa prospettiva di chi, con ingenuo e presuntuoso senno moderno, si erge a giudice del senso di quella narrativa. Si scandalizza poi di quei testi solo chi non li comprende, chi non fa la fatica di “entrare nei testi” stessi o di interrogarli alla luce delle tradizioni che non solo li hanno conservati fino a noi, ma li hanno anche creati. Con questo libro Assmann mostra di aver fatto un lungo percorso, ispirato a grande onestà intellettuale, e di essersi su molti punti auto-corretto, anche grazie a quell’interdisciplinarità che resta indispensabile dinanzi a una materia tanto complessa. Non si tratta qui di privilegiare letture ebraiche oppure cristiane o financo neutroasettiche rispetto alle fedi storiche che quel testo ha generato; si tratta invece di riconoscere che le Scritture sono testi performativi più che descrittivi, non raccontano la storia ma la fanno. Averlo articolato, pur con tutte le possibili riserve del caso, è un merito non secondario delle ricerche di Assmann.