Scienza. La storia delle donne che hanno allungato la vita all’uomo
Mary Hunt e una sua collaboratrice all’Usda Northern Regional Research Laboratory nel 1943
27 maggio 1942: l’ufficiale nazista Reinhard Heydrich, “l’uomo dal cuore di ferro”, rimane vittima di un attentato mentre attraversa Praga in auto. Viene solo ferito, ma una settimana dopo muore. 20 luglio 1944: nel corso dell’Operazione Valchiria, una bomba esplode procurando ad Adolf Hitler alcune ferite e ustioni. Memore del rischio di infezione che, due anni prima, aveva causato il decesso di Heydrich, Theodor Morell, medico personale di Hitler, cura il Führer con una misteriosa polverina, grazie alla quale il paziente si riprende. È penicillina. Morell ne aveva alcune fiale, sottratte a soldati americani catturati dopo lo sbarco in Normandia. Pure i tedeschi avevano scoperto i potenziali benefici del farmaco, ma non erano riusciti a produrlo su larga scala.
Il curioso aneddoto è solo uno dei tanti narrati nel documentato quanto coinvolgente Extra life, a firma di Steven Johnson, affermato giornalista scientifico e scrittore statunitense. Uscito da Castelvecchi, in 280 dense pagine (euro 20,00) il volume spiega l’impatto decisivo delle scoperte mediche e scientifiche sull’umanità e, in particolare, «come in un secolo abbiamo guadagnato una vita in più». La risposta? Migliorando l’igiene, rendendo potabile l’acqua, costruendo le fognature, sconfiggendo malattie che mietevano milioni di persone (dal vaiolo al colera all’Aids) e incrementando quantità e qualità dell’alimentazione. Quello che qui appare un mero elenco, Johnson lo trasforma in una sorta di romanzo del progresso, evocando successi clamorosi e tragedie epocali: dal latte azzurro (perché inquinato) nella New York dell’Ottocento al famigerato Talidomide, che, diffuso negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, determinò la nascita di molti bambini focomelici. Nel libro l’autore chiama sul palcoscenico protagonisti noti (Pasteur, Koch, Fleming e molti altri), ma anche personaggi sconosciuti ai più. Come Frizt Haber, chimico tedesco, pioniere dei fertilizzanti artificiali che hanno rivoluzionato l’agricoltura nel XX secolo. «Nessuna scoperta ha avuto un impatto sull’esplosione della crescita demografica simile a quello dell’ammoniaca artificiale di Haber», osserva Johnson. Particolare paradossale, che ci ricorda l’inestricabile ambivalenza della scienza: Haber, premio Nobel per la chimica nel 1918, è anche colui che inventò l’iprite, il primo gas tossico, utilizzato nelle trincee durante la Prima guerra mondiale.
Riavvolgere il nastro della storia della medicina e della scienza è un esercizio che regala molteplici sorprese e sollecita riflessioni profonde. «Alla Svezia ci sono voluti centocinquant’anni per ridurre il tasso di mortalità infantile dal 30% a meno dell’1%. La Corea del Sud del dopoguerra riuscì a realizzare la stessa impresa in soli 45 anni - leggiamo in Extra Life -. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’aspettativa di vita in India era ancora intrappolata sotto la lunga curva dei 35 anni. Oggi la speranza di vita in quel Paese supera i 70 anni».
Per noi oggi, almeno in Occidente, il quasi azzeramento della mortalità infantile, la disponibilità di cibo e cure mediche, un notevole innalzamento dell’età media sono traguardi raggiunti dalla stragrande maggioranza della popolazione; ma se solo voltassimo indietro lo sguardo al secolo scorso, ci accorgeremmo che non è sempre stato così. E che non è così nemmeno oggi: in tante aree del pianeta l’accesso all’acqua potabile o a un’alimentazione sufficiente è ancora un miraggio. «Nei Paesi più poveri - ricorda Johnson - la grande nemesi che John Snow identificò per primo quasi due secoli fa - le malattie trasmesse attraverso l’acqua - è ancora la seconda causa di morte più comune». Ancora: «Un altro intervento estremamente importante nei Paesi più poveri del mondo sarebbe l’eliminazione della malaria. Nessun organismo multicellulare è stato responsabile di più morti nel corso della storia umana quanto la zanzara. L’Oms stima che ogni anno più di duecento milioni di persone contraggono la malattia: mezzo milione ne muore».
Per percepire la distanza siderale tra la condizione attuale e il passato, basterebbe citare la cosiddetta “influenza spagnola” che, stando alle stime più recenti, avrebbe determinato cento milioni di vittime all’inizio del XX secolo. Johnson racconta che uno scienziato dell’esercito americano si avventurò in questa funesta profezia: «Se l’epidemia continua con questa accelerazione matematica è probabile che la civiltà scompaia dalla faccia della terra nel giro di qualche altra settimana». Sappiamo come è realmente andata, per fortuna. Come ricorda l’autore di Extra life, «il periodo che va dal 1916 al 1920 segnò l’ultimo momento in cui si sarebbe registrata una grande inversione nell’aspettativa di vita globale (durante la Seconda guerra mondiale l’aspettativa di vita diminuì brevemente, ma senza raggiungere la gravità del collasso all’epoca della “Grande Influenza”)». Ancora. Nei manuali di storia dei licei non se ne parla, ma è interessante scoprire, grazie a Johnson, che «l’elenco dei leader europei abbattuti dal vaiolo tra il 1600 e il 1800 è davvero sconvolgente. Se si sommano tutte le principali figure politiche assassinate nel mondo negli ultimi duecento anni, il totale risulta comunque una frazione di quelle uccise dal virus del vaiolo durante quei secoli funesti. Si pensi a tutti i riallineamenti politici, le insurrezioni e le crisi di successione che non sarebbero mai accadute se il vaiolo non si fosse infiltrato così in profondità tra i ranghi dell’élite europea».
La ricerca scientifica e le novità via via introdotte nella pratica medica hanno prodotto risultati incredibili. Ma, così come le malattie evolvono nel tempo, anche le cause di morte per l’umanità si sono modificate nell’arco dei secoli. Johnson identifica il primo della lunga serie degli incidenti stradali con la morte della scienziata irlandese Mary Ward, a bordo di un veicolo sperimentale a vapore, avvenuta nel lontano 1869. Mezzo secolo dopo, «all’epoca in cui Henry Ford aveva appena inventato il Modello T, la tubercolosi era la terza causa di morte negli Stati Uniti. Ma quando, all’inizio degli anni Cinquanta, gli antibiotici raggiunsero le masse, la tubercolosi era stata sostituita da una minaccia interamente costruita creata dall’uomo, ossia dall’automobile». Ci vorrà Ralph Nader e la protesta dei consumatori Usa, a metà degli anni Sessanta, per obbligare le aziende automobilistiche a introdurre le cinture di sicurezza, che avrebbero fatto risparmiare molte vite. Eppure «soltanto un decennio prima, erano state liquidate come una follia, un inconveniente - o peggio ancora - una potenziale minaccia».
Oltre alla citata Mary Ward, nel libro si affacciano varie altre donne. Tra queste, la batteriologa statunitense Mary Hunt, soprannominata “Moldy Mary” (ossia “Mary l’ammuffita”) perché passava da un fruttivendolo all’altro cercando le muffe più adatte a produrre penicillina in grande quantità. Non meno curiosa la vicenda di Mary Montagu, alla quale si deve l’adozione della variolizzazione da parte dell’élite britannica nel Settecento. «Ciò che colpisce della storia di Montagu - è la sana provocazione di Johnson - è come si discosti dalle narrazioni convenzionali legate al progresso, secondo cui le nostre vite vengono migliorate grazie alle scoperte di un eroico scienziato, solitamente maschio ed europeo, guidato dalle metodologie empiriche sviluppate durante l’Illuminismo».