Diritti umani. Ecco perché Ankara ha paura delle parole di Asli Erdogan
La scrittrice turca Asli Erdogan
Da oltre dieci anni, la scrittrice turca Asli Erdogan scriveva sul giornale filo-curdo “Ozgür Gürdem”, quando lo scorso agosto, a causa dei suoi articoli e del suo limpido impegno, è stata arrestata, a pochi giorni dal fallito colpo di stato in Turchia. I suoi quasi cinque mesi di detenzione hanno scosso e indignato non soltanto il mondo letterario; anche grande parte della società civile internazionale si è mobilitata per la liberazione di questa narratrice e cronista la cui poliedricità è nello stile (molto variegato), ed evocata dai tratti del viso, bello e intenso, con nello sguardo verde acqua la profondità di qualcuno che cerca e anela a ciò che è essenziale: essenziale perché necessario.
Ora gli articoli che sono stati causa di quell’arresto vengono tradotti e pubblicati nel mondo. In Francia, da Actes Sud, la raccolta esce con il bellissimo titolo Le silence même n’est plus à toi (“Neppure il silenzio è più tuo”, da un verso del poeta greco Giorgos Seferis). Poetici i vari interventi di Asli Erdogan, e sta lì l’elemento che più impressiona. Ci si domanda: come parole tanto nitide, impregnate di un’interiorità in grado di guardare e giudicare il mondo sempre rimanendo dentro (dentro sé, così come dentro il nucleo più complesso della realtà) possono esser state interpretate – e condannate – come pericolose? Parole nella cui limpidezza sta il pericolo che rappresentano.
Da scrittrice, Asli Erdogan sa bene quale antidoto la letteratura possa costituire davanti alla volgarità e alla frenesia del mondo. Per difendersi dall’«aggressività contagiosa dell’informazione giornalistica», si rifugia nella lettura di Dostoveskij. Sapendo bene di vivere da minoritaria, assetata di risposte che non molti cercano. «In tempi di guerra, chi mai ha bisogno di verità?». La sua formazione, umana e professionale, Asli Erdogan l’ha costruita nel mondo. Ha vissuto e lavorato in Brasile, in Svizzera, in Francia. Tornata in Turchia, si è occupata di emigrati africani. Ben prima di trasporla sulla pagina scritta, la sua parola ha risuonato da lontano. Il dramma della deriva politica in cui si trova a vivere le è ben chiaro, non si fa illusioni. «Il vero esilio comincia. L’esilio che estromette l’uomo dalle sue narrazioni, negate nella loro realtà». Qualcosa, dell’intonazione di questi interventi sui giornali, sempre è teso, vibrante, che lambisce l’estremo. Parrebbe che la scrittrice presagisca l’indebita condanna che grazie a quelle pagine, per quelle parole, la attende. Tutto è in bilico, fuori e dentro di lei: «Nulla più separa speranza e disperazione, avere paura e non averla, morire dal non esser morti».
Sempre è solitaria, e sola, ma al contempo in stretto contatto con esseri che le stanno a cuore. Denuncia il razzismo in Turchia, condanna la violenza sulle donne, piange la colpa del genocidio degli armeni. Vicinissima, attenta: «è essere capaci di affrontare lo sguardo delle vittime, sapere lasciar loro la parola». Molto prima che civile, l’impegno per Asli Erdogan è cura, rimedio a un isolamento percepito come fatale, ineluttabile. «La politica è antidoto possibile alla solitudine e l’oscurità».
Anche l’avere rinunciato a tutto (una grande carriera come fisica al Cern di Ginevra), pur di scrivere, le è fatale. Lei lo sa. «La letteratura incomincia con il senso del destino», scrive. Si tratta di «dare vita alle parole, e parole alla vita». Sfida meravigliosa, scommessa persa. Perché se la lingua di Asli Erdogan è musicale, calma, calda (nonostante racconti la guerra e altri orrori), parallelamente, con lucidità e disincanto assoluti lei si interroga sui limiti della scrittura. Sino a dove, le parole hanno presa sulla realtà? Paesaggi spettrali, sui quali compatto s’è steso il velo di polvere della guerra. Personaggi che fanno la loro rapida, luminosa (umanissima) apparizione. «Ogni cosa è se stessa, circondata di silenzio». Quel silenzio che abbraccia tutto, il dicibile come l’indicibile, la misura tanto quanto il disastro. Rigore e purezza. Senza voltarsi. Cita l’aforisma di Kafka: «Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare». Asli Erdogan a quel punto è arrivata, già da tempo. Speriamo che “Neppure il silenzio è più tuo” appaia presto, nella versione italiana.