Anteprima. Ascetica e beat: è l'India di Gary Snyder
Gary Snyder al tempio Jain di Orissa
Gary Snyder, nato a San Francisco nel 1930, è uno dei più grandi poeti americani contemporanei. Esponente della Beat generation, guardiaboschi, monaco zen, profondo conoscitore del Giappone e del pensiero orientale, ispiratore di un rapporto diretto con la natura e di un vasto movimento di coscienza ecologica, vive in completa sussistenza nei boschi del Nevada con la famiglia. Premio Pulitzer, autore di numerosi libri di poesia e di saggi, camminatore e viaggiatore, pochi rappresentano quanto lui la visione di nuova società in dialogo con il mondo dei nativi, la spiritualità zen e le radici profonde dell’abitare poeticamente il mondo. In India. Viaggio di un poeta da giovane esce il 16 luglio, con traduzione e cura di Anna Castelli (della quale anticipiamo un contributo) e postfazione di Matteo Meschiari, nella collana Fieldwork di Milieu (pagine: 182, euro 15,90) e narra di quando, nel dicembre del 1961, Snyder partì con Joanne Kyger dal monastero di Kyoto in cui è stato iniziato allo zen alla volta dell’India del Buddha. L’India raccontata in questo diario è un momento di verifica e di scoperta, un viaggio per comprendere la reale estensione del mondo spirituale.
Nel 1961 il poeta sta diventando monaco zen nell’antichissimo monastero Daitoku–ji di Kyoto. Da lì assieme alla poetessa Joanne Kyger si imbarca con biglietti di terza classe sul “Cambodge” con l’obiettivo di visitare i luoghi del Buddha 1 961, Gary Snyder, 31 anni, è uno dei poeti più promettenti della Beat generation. Sta diventando monaco zen, nell’antichissimo monastero Daitoku–ji di Kyoto. Da Kyoto insieme alla poetessa Joanne Kyger, si imbarca, con biglietti di terza classe, sul Cambodge, una nave che fa rotta tra Giappone e l’India. Portano con sé pesantissimi zaini e Joanne scarpe con tacchi alti. Snyder organizza il viaggio con l’obiettivo di visitare i luoghi del Buddha e tutti gli ashram di cui ha sentito parlare durante i suoi studi a San Francisco e in Giappone. Qualche mese dopo li raggiungerà Allen Ginsberg, già poeta affermato, accompagnato dal compagno Peter Orlovski, anch’esso poeta ed entusiasta sperimentatore di ogni tipo di sostanza stupefacente chimica o naturale. L’India è un momento di verifica e di scoperta, un viaggio per comprendere la reale estensione del mondo spirituale buddhista. Percorrono il subcontinente al modo dei Beat, on the road, in terza classe, utilizzando mezzi locali e, quando possibile, a piedi. I quattro poeti anticipano di sette anni i Beatles, che andranno a praticare la meditazione trascendentale nell’ashram dello Yogi Maharishi Mahesh lanciando a livello mondiale la moda del viaggio alla ricerca della spiritualità orientale. Appena sei mesi prima, sempre nel 1961, Pier Paolo Pasolini era partito, con Alberto Moravia ed Elsa Morante, per l’India e vi era rimasto per sei settimane. Come quello dei tre scrittori italiani, quello di Snyder, Kyger e Ginsberg è un viaggio tra amici, che ha però una particolarità: i poeti americani si leggono vicendevolmente i diari. Joanne Kyger ne tiene uno parallelo a quello di Gary, commentando il viaggio in India e gli anni giapponesi.
Dal punto di vista del racconto e dei giorni trascorsi alla scoperta del subcontinente indiano affiancare la voce di Kyger a quella di Snyder significa potersi avvalere di una chiava di lettura straordinaria, piena di candore, ingenuità e umorismo tagliente, come quando descrive il goffo tentativo di Ginsberg di leggere il suo poema Urlo al Dalai Lama. Gary e Allen sono amici dall’estate del 1955 e continueranno a scriversi e ad essere l’uno riferimento dell’altro per tutta la vita. La loro amicizia è legata a una comune ricerca. Snyder condivide con i propri compagni di strada e di generazione «il proposito di ricostruire l’interezza dell’uomo» e «recuperare quella parte di individuo e della società relegata nell’inconscio», ma mentre Allen conduce una ricerca inizialmente legata alla protesta e alla sperimentazione di droghe e solo successivamente si converte al buddhismo, Snyder pratica «la sua emarginazione più che come una protesta o una tragica necessità, come una gioiosa ascesi individuale volontariamente povera e condita di una buona dose di allegria». Entrambi, però, tendono verso uno sforzo mirato all’allontanamento volontario dalla società canonica del tempo e in generale dalla follia della mentalità americana. Gary Snyder, per quanto giovane, è già per i suoi coetanei come l’esempio di una via alternativa. Jack Kerouac, che era di qualche anno maggiore di lui e aveva il dono di far diventare leggenda, nei suoi libri, ogni singolo gesto quotidiano compiuto dai Beat, lo descrive in I vagabondi del Dharma con vero stupore.
Guardandoli lì seduti o in piedi mi resi conto che solo lui non sembrava un poeta, anche se in realtà lo era. Gli altri poeti erano intellettuali di belle speranze stavano in piedi tutti intorno variamente abbigliati, con giacchette di velluto a coste lise sui gomiti, scarpe scalcagnate, e libri che spuntavano dalle tasche. Ma lui portava rozze tute da operaio. La sua faccia era una maschera ossuta e dolente, ma gli occhi brillavano come quelli di un vecchio saggio cinese ridacchiante, sopra il pizzetto, cancellando l’aria ruvida della sua faccia. Non si può, però, limitare Snyder alla Beat Generation. Il suo pensiero nei saggi e nelle interviste, dalla fine degli anni ‘60 in poi, è di una freschezza e fertilità stupefacenti e anticipa temi incredibilmente attuali. Sempre estremamente chiaro e non ideologico, le sue idee derivano da un’esperienza diretta delle cose. L’atteggiamento con cui Snyder si confronta con l’alterità, sia essa dell’Oriente o del mondo naturale, anticipa i temi e i modi dell’eco- femminismo o del nuovo ambientalismo non specista. In Italia, Snyder per anni è stato trascurato dalla critica perché non lo si identifica con la generazione dei poeti maledetti, con la voce della disperazione e della protesta, quella patrocinata da Fernanda Pivano. Soltanto negli anni ’80 i suoi testi e le sue poesie cominceranno a essere conosciuti dal pubblico italiano. È probabile che su tutto questo pesi proprio un’idea cara a Snyder, che l’ha espressa magistralmente: «Una delle cose che ho imparato dallo Zen e dalla poesia cinese è che una persona veramente creativa è anche autenticamente sana […] il genio sregolato non è altro che un riflesso della follia dei tempi». Il pubblicarlo oggi, a partire da questo delizioso diario, significa scoprire uno dei maestri di un atteggiamento attualissimo di scoperta del mondo dei nativi, delle relazioni con gli animali e il mondo naturale e del respiro che tiene unito tutto questo.