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Dibattito. “Artivismo”: torna la stagione dell'impegno?

Irene Baldriga giovedì 5 maggio 2022

Un'opera di Banksy a Gaza

Nella Salvezza del bello (2015), Byungchul Han assume il concetto di levigatezza come metafora della ossessiva ricerca di positività che permea la parte più fortunata del mondo: di questo senso di accondiscendenza materica (che invade ogni aspetto dei nostri consumi), il filosofo individua in Jeff Koons l’interprete più efficace. Nelle opere dell’artista «non c’è alcun disastro, alcuna lesione […] tutto risulta arrotondato, liscio, levigato. […] Non c’è nulla che vada interpretato, decifrato o pensato: è un’arte del like». L’effetto anestetizzante delle opere di Koons è lo stesso che viene prodotto da una varietà di esperienze e simbologie che nel loro insieme puntano a ridurre ogni possibile reazione, ogni attrito; una seduzione così attraente, così desiderabile da neutralizzare qualsiasi resistenza, anche potenziale. A questa dimensione si oppone una galassia di altri linguaggi e sensazioni: un mondo ruvido, critico, volutamente scomodo e antagonista, capace di aprire squarci di libero pensiero, spazi di dialogo e contraddizione.

È la complessa realtà di un’arte politica, l’Artivismo, di cui ci parla Vincenzo Trione nel suo ultimo libro (Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, pagine 232, euro 13,00), una riflessione, a sua volta militante, che tenta di analizzare motivazioni e proposte dell’arte degli ultimi anni. L’iniziativa di Trione offre una lettura trasversale ma organica di una quantità di fenomeni molto diversi tra loro; in secondo luogo ne evidenzia con lucidità gli aspetti di contraddizione, di fragilità e di rischio.

Il dato che maggiormente colpisce nella sua analisi è il carattere di urgenza, di vero e proprio bisogno, che ispira la gran parte delle opere esaminate: urgenza e bisogno che innanzitutto vanno a compensare il baratro di una politica istituzionale sempre più frammentaria, poco comprensibile nei suoi obiettivi, troppo distante dalla quotidianità dei cittadini come pure dal desiderio di slancio ideale che da sempre accompagna qualsiasi processo di miglioramento sociale. L’urgenza è il bisogno impellente di reagire, di levare la voce; è la libertà di indignarsi di fronte alle ingiustizie e alle violenze, agli abbandoni colpevoli, ai silenzi che avvolgono drammi solitari e collettivi. Gli artisti captano l’impotenza di cittadini storditi dal rumore dei talk show, macchine concepite per distrarre dalle vere questioni del presente.

Trione ricorre a una parola significativa: la ecolalia, una ripetizione verbale martellante, che esprime in certi disturbi del comportamento un bisogno incontrollabile. Il critico la utilizza per definire l’insistenza di certi interventi espressivi, come le incursioni delle crew – armate di bombolette spray – nelle periferie dei centri urbani. Le ecolalie degli Artivisti rispondono al silenzio dell’indifferenza, ma anche al suono artificiale dei dibattiti televisivi. Esiste un’affinità tra le pulsioni manifestate da artisti, writer e performer con gli orientamenti di quei musei che scendono in campo, schierandosi contro le guerre, accogliendo narrazioni postcoloniali, favorendo momenti di dialogo tra le diversità. L’arte rivendica così il suo diritto di parola, alimentando il discorso pubblico, in nome di quel principio di responsabilità che ispira il più grande artista politico dei nostri tempi, Anselm Kiefer.

C’è poi un confine sottile che sembra conciliare l’art system con l’impegno degli artivisti, che in parte si sottraggono al controllo di un assetto riconosciuto (il mercato dell’arte, le mostre…), ma in un qualche modo ne cercano il riconoscimento. Su questa linea di confine sarebbe il caso di lavorare, per riconquistare lo spazio dell’arte come luogo del confronto e della riflessione. Sono questi i luoghi dove oggi è possibile parlare di chi è dimenticato e abbandonato: dei conflitti ignorati, degli anziani nascosti, delle violenze taciute, delle battaglie perse e di quelle mai combattute.

Tra le tante espressioni artistiche, Trione si sofferma sui protagonisti della street art, come Blu o lo stesso Banksy, capaci di lanciare messaggi potenti (pace, equità sociale, tolleranza) a platee vastissime. Ma soprattutto rileva la necessità di intercettare i fenomeni spontanei che a volte esplodono in luoghi strangolati dalla repressione: ci porta a Beirut e a Tripoli, cui potremmo aggiungere la Kabul di Shamsia Hassani con la denuncia delle violenze compiute dai talebani contro le donne.

Trione tenta una genealogia dell’Artivismo (dadaismo e prime avanguardie) e immagina un museo impossibile di questa arte dell’impegno, dove giganteggiano Kiefer, Kadishman, Kentridge e Boltanski, e che potrebbe accogliere Marina Abramovich, il cui Balkan Baroque appare oggi drammaticamente attuale. Trione tenta una classificazione dell’Artivismo, prova a concettualizzarne gli intenti, senza tacerne le criticità: la tendenza alla semplificazione del linguaggio, utile a raggiungere un pubblico in gran parte disinformato (perché “anestetizzato”), ma anche il pericolo costante di compromesso e banalizzazione, un pericolo così grande da indurre alcuni artisti ad abbracciare il silenzio come“scelta poetica” che intende dichiarare l’impossibilità di rappresentare l’indicibile.