Agorà

America Latina. Nell’ultimo romanzo di Arriaga rogo del padre e redenzione del Messico

Lucia Capuzzi mercoledì 1 settembre 2021

Lo scrittore e sceneggiatore messicano Guillermo Arriaga

«Scrivere per condividere, per affrontare, per provocare. Scrivere per ribellarsi. Scrivere per riaffermarsi. Scrivere per non impazzire. Scrivere per prendere a pugni. Per sostenere. Per incalzare. Scrivere per non morire tanto. Scrivere per ululare, per abbaiare, per dare morsi, per grugnire. Scrivere per provocare ferite. Scrivere per curare. Scrivere per espellere, per depurare. Scrivere come antisettico, come antibiotico, come antigene. Scrivere come veleno, come tossina. Scrivere per avvicinarsi. Scrivere per allontanarsi. Scrivere per scoprire. Scrivere per perdersi. Scrivere per vincere. Scrivere per immergersi. Scrivere per stare a galla. Scrivere per non naufragare. Scrivere per il naufragio. Scrivere per il naufrago. Scrivere, scrivere, scrivere».

È un inno all’arte del narrare, con la scrittura, con la danza, con la vita stessa, Salvare il fuoco, il nuovo libro di Guillermo Arriaga, pubblicato da Bompiani (pagine 844, euro 24,00). Pagina dopo pagina, le parole ardenti dello scrittore messicano divampano come un incendio sotto gli occhi del lettore. Incapace di sottrarsi all’incantesimo delle fiamme, lo resta incatenato al racconto, fino alla sua consumazione totale. O, meglio, ai racconti.

Sceneggiatore tra i più acclamati, Arriaga è un maestro nel cucire insieme storie differenti, destreggiandosi con inusuale fluidità tra tempi e città. Lo ha dimostrato in film pluripremiati come Amores Perros, 21 grammi e Babel, dove la trama emerge a scampoli tra continui flashback e fughe in avanti. Abilità trasposta con buoni risultati nei precedenti romanzi, da Pancho Villa e lo squadrone ghigliottina a Il selvaggio. Con Salvare il fuoco, però, l’autore raggiunge il massimo potenziale espressivo tratteggiando una delle più efficaci e poetiche metafore del Messico attuale.

Nel Paese dilaniato dalla narcoguerra, violenza estrema e scampoli di redenzioni si affrontano in un incessante corpo a corpo. Quella di Arriaga, tuttavia, non è l’ennesima “storia di narcos”. È nel corpo e nella mente di José Cuauhtémoc che la battaglia esterna diviene tangibile. Figlio seviziato da un padre despota – un indigeno fiero e brillante accademico – lo uccide dandogli fuoco. Ed estinguendo nelle fiamme la furia di un carnefice a sua volta vittima della povertà estrema. Nel Reclusorio Oriente, dove è incarcerato per questo e altri delitti, José Cuauhtémoc scopre nella scrittura una possibilità di salvezza. È solo l’amore, tuttavia, a renderla reale.

Marina, la donna amata, fa, invece, il percorso inverso: deve sperimentare la passione estrema, la fusione totale, immergersi nell’abisso per scoprire l’arte nascosta in lei. Ed esprimerla in nuove coreografie. Deve uscire dal Messico irreale de las zonas – i quartieri chiusi con recinti e guardie armate, territorio esclusivo dei super ricchi – ed entrare in quello palpitante dei sobborghi della capitale, fino all’ultimo gradino, dove la società imprigiona quanti è incapace di accogliere: il carcere.

A rendere ancora più intrigante il processo di liberazione reciproca di José Cuauhtemoc e Marina, la scelta di moltiplicare i punti di vista. Arriaga fa parlare Marina in prima persona. Come pure Francisco, fratello di José Cuauhtemoc, che narra il proprio dramma familiare in forma diretta al padre assassinato. Le loro voci si intrecciano con quelle degli altri detenuti del Reclusorio Oriente che parlano attraverso i racconti creati per un immaginario laboratorio di scrittura. E con la narrazione “oggettiva” della vicenda di José Cuauhtemoc. Tonalità differenti che la penna di Arriaga fa fondere insieme in un canto potente, unico, incontenibile.