FRONTIERE. Armenia, ai piedi dell’Ararat l’arca del “grande crimine”
Dalla Collina delle rondini (Dzidzernagapert, in lingua armena) lo sguardo abbraccia tutta la conca di Yerevan. A nord-ovest l’imponente statua della Mayr Hayastan svetta tra il verde del Parco della Vittoria, dominato fino alla fine degli anni Sessanta dalla mole, ugualmente monumentale, dell’effigie di Stalin. A sud, spesso incappucciato da una pesante e lattigginosa coltre di nubi, si erge l’enorme mole dell’Ararat, con le sue nevi perenni e gli oltre 5 mila metri d’altezza. Sulla spianata che conduce al Memoriale del Genocidio, costruito nel 1967 e dominato da una appuntita stele alta 42 metri, si attardano gruppi di giapponesi alla ricerca di una foto in favore di luce. Tra le pesanti lastre di basalto che si aprono a corolla, 12 come le province perdute dell’Armenia Occidentale, arde il fuoco della memoria, a perenne ricordo delle vittime del massacro perpetrato all’inizio del Novecento dall’esercito dei Giovani Turchi. Una tragedia immane, costata la vita ad almeno un milione e mezzo di armeni, periti spesso di stenti, malattia o sfinimento nel tentativo disperato della fuga. Ogni anno, il 24 aprile, alla Collina delle rondini, oltre agli armeni di Yerevan e delle province della Repubblica d’Armenia (che conta oggi 3 milioni d’abitanti in un territorio poco più grande della Sicilia), salgono in pellegrinaggio alcuni dei sopravvissuti e migliaia di loro figli provenienti da ogni angolo del globo, dove oggi si trova disperso parte di questo popolo antico e fiero dopo il Medz Yeghern, il "grande crimine". In questa ricorrenza (il 24 aprile 1915, 500 armeni vennero incarcerati e poi eliminati a Istanbul), la base circolare che cinge il braciere del Memoriale del Genocidio si ricopre di migliaia di fiori: garofani bianchi e rossi, rose, o anche semplici fiori di campo. Gruppi di visitatori, mentre il sole di mezzogiorno scalda il nero della pietra, si inoltrano nel Giardino dei giusti, dove ogni albero ricorda il sacrificio di chi si è saputo opporre alla follia del genocidio, denunciando i massacri o mettendo in pericolo la propria vita per salvare quella degli armeni.
Poco lontano sorge il Muro della memoria, dove vengono tumulate le ceneri (o la terra tombale) di coloro che hanno lottato contro il Medz Yeghern. Jeff è arrivato fin qui dagli Stati Uniti, insieme alla moglie. È figlio di una sopravvissuta al genocidio, scampata alla morte dopo essere riparata in Siria. E poi da qui a Parigi e infine nel Nuovo Mondo, nel tentativo di rifarsi una vita. «Ma senza mai dimenticare», spiega Jeff, che ha insegnato la lingua e l’alfabeto armeno ai figli e anche qualche parola d’italiano per comunicare con i parenti che vivono a Venezia. La memoria di ciò che è stato, la conoscenza delle sue cause e la necessità che l’umanità sappia fare fronte comune contro l’aberrazione del male, è il filo conduttore del Museo del Genocidio, inaugurato nel 1995. Vi si raccolgono documenti e fotografie (agghiaccianti) delle "marce della morte", mappe e testimonianze legate alla pagina più cupa della storia armena. Il museo è stato scavato nel sottosuolo della Collina, quasi a consegnare alla terra il dolore che racchiude. Nella prima sala, la mappa dell’Anatolia e del Vicino Oriente dove erano presenti le comunità armene prima del genocidio. E poi fotografie di uomini, donne e bambini che potrebbero essere state prese ad Auschwitz, documenti di un orrore per molto tempo negato o taciuto. «Basta fare una visita a queste sale, guardare le immagini, leggere i documenti, per rendersi conto che ogni posizione negazionista è insostenibile», spiega Hakob Gorginyan, studi in Italia in Storia della Chiesa e consulente del ministero del Turismo armeno. «Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni principali fu la regione siriana di Deir al-Zor. Qui intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti. In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni. Alcuni riuscirono a scampare alla morte perché venduti come piccoli schiavi a facoltose famiglie arabe. Molte delle pagine e degli episodi che hanno spinto il governo dei Giovani Turchi a intraprendere la strada della cancellazione di un’intera minoranza sono ancora sconosciute. Ancora oggi, quella del genocidio armeno, è una storia scomoda». Nel piccolo bookshop che si trova all’interno del museo, sono in bella vista, tradotte nelle varie lingue, testi sull’argomento.
Una gentile signora sta illustrando a un gruppo di turisti anglofoni il panorama editoriale: «Di fondamentale importanza c’è il libro di Henry Morgenthau, al tempo ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia (il Diario è ora disponibile anche in italiano, edito da Guerini, ndr). Morgenthau fu testimone di quello che stava accadendo e si adoperò per salvare il popolo armeno». C’è poi un libro di Jean Varoujean Gureghian edito in Francia che, dice con cipiglio un visitatore dallo spiccato accento transalpino «è probabilmente il volume più documentato sul genocidio. Un lavoro di decenni, fatto incrociando dati, registrando le testimonianze dei sopravvissuti e consultando i documenti del patriarcato di Istanbul». Come è possibile, di fronte a un lavoro sempre più approfondito da parte degli storici, che il riconoscimento del genocidio armeno sia ancora per molti un tabù? In Turchia solo di recente e tra enormi difficoltà e resistenze, si sta iniziando a toccare l’argomento. Nel settembre 2008 un gruppo di intellettuali turchi ha lanciato su Internet una petizione (L’appel au pardon) che ha raccolto più di 30 mila firme, prima che il sito fosse bloccato dalle autorità di Ankara. A oggi solo una ventina di Paesi hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno, tra cui Francia, Italia e Russia. Ma dal 2010 giace nei cassetti della Casa Bianca una mozione del Congresso che chiede al presidente Usa il riconoscimento ufficiale del Medz Yeghern. «Finora, però – argomenta ancora Hakob – non se ne è fatto nulla. Obama, come gli altri prima di lui, si è limitato a parlare di "massacri"». Gli Usa hanno truppe in tutto il Medio Oriente. Possono correre il rischio di dover rinunciare alle basi militari turche di Mersin o di Iskenderun?