Musica. Dai testi impegnati ai soldi a tutti i costi: come s'è svuotato il rap
Il rapper Fabri Fibra
Che il rap sia oggi in Italia uno dei generi musicali più ascoltati dai giovani non è certo un segreto. Se negli anni Settanta i cantautori costruivano l’orizzonte musicale di senso dei ragazzi, in contrasto con quello dei genitori, oggi quel ruolo è stato preso dagli artisti e dalle artiste del rap. Il parallelo non vuole essere qualcosa di più che una banale constatazione. Proviamone a indagare le motivazioni e cerchiamo di capire se è stato un progresso positivo.
Negli anni Ottanta i cantautori classici vengono lasciati indietro dalla discografia: l’epoca del riflusso nel privato e la crisi del settore discografico spostano il mercato verso generi più d’impatto. A tenere alta la bandiera del realismo musicale, che si oppone alla Milano da bere e al rampantismo tipico del periodo, sono alla fine del decennio le cosiddette posse, che si formano nei centri sociali: aggregazioni giovanili alternative, che fanno della filosofia hip-hop e dell’esibizione rap cruda, diretta e sfrontata una esigenza espressiva centrale. La musica che gira in questi contesti è trasversale in quanto a generi: ska, reggae, cassa in quattro e tempi forti che riesumano quel realismo poetico estremo che i cantautori andavano perdendo.
I collettivi più importanti sono i Lion Horse Posse a Milano, gli Onda Rossa Posse a Roma, gli Isola Posse All Stars a Bologna; a Napoli ci sono i 99 Posse che, come succede spesso in quella città, riescono a imporre la propria arte con la lingua napoletana, senza tramite tra l’intenzione e la resa verbale viscerale. Siamo nei primissimi anni Novanta; le posse e i centri sociali hanno vita molto breve, ma quest’attitudine dà la stura perché il rap e l’hip-hop sbarchino in Italia in maniera prorompente e determinante. Soprattutto, questo genere va ad affiancare quello dei cantautori per ciò che riguarda lo sguardo vigile sulla realtà, fino alla corrosività esasperata e contro il sistema.
Nel decennio successivo, la seconda generazione di rapper, quella dei Fabri Fibra, dei Club Dogo o di Marracash effettua un passaggio fondamentale: mantiene l’attitudine tagliente e aggressiva, togliendo quasi completamente quella ideologica; soprattutto Fibra, si spinge sempre più avanti anche nella ricerca di qualcosa di artisticamente sorprendente. Diventano i punti di riferimento di una scena rap giovane e alternativa al pop, ma anche all’indie che sfocia nell’it-pop come nuovo e innocuo corso ufficiale e ben educato della canzone in Italia.
Accanto a Fibra e Marra, artisti come Luché o Salmo diventano punti di riferimento per i ragazzi della terza generazione, la cosiddetta scena trap: giovani che cercano la rivalsa sociale, immigrati di seconda generazione o ragazzi con una situazione familiare disastrata che rappano per impellente necessità di tirarsi fuori dalla miseria. Sono artisti che vengono letteralmente dalla strada, ne conoscono gli anfratti e partecipano il terrore di restare invischiati nel suo catrame raffermo, oppure di non essere riconosciuti in quanto italiani. Vengono principalmente da Milano, Roma o Genova. I più interessanti sono Ghali, Ernia e i genovesi Izi e Tedua.
Siamo arrivati al giro di boa fra gli anni Dieci e i Venti del Duemila. Fin qui i ragazzi del rap e della trap – nei casi migliori – hanno dimostrato una enorme fame di scrittura e un percorso che si può felicemente aggrappare alla tradizione. Le loro canzoni diventano anche un ottimo modo per stabilire un contatto a scuola tra gli insegnanti e gli studenti: i brani di Ghali, i riferimenti letterari di Tedua, riescono a leggere nell’immaginario post-moderno, mischiando popolarità e senso artistico. La sensazione oggi è che sia buona parte di questa nuova scena a essere diventata il nuovo pop italiano. Il pop commerciale esiste quando un polo produttivo capisce quali sono le icone mercantili che funzionano e le riproduce in serie. Se sessant’anni fa il pop era la canzone strappalacrime sanremese che veniva direttamente dal melodramma, senza possibilità e intenzione di incidere sulla realtà, oggi le tematiche spinte di strada, la mitizzazione del denaro, le pistole, l’indicibile violenza sul genere femminile creano un’icona pruriginosa che funziona sempre di più.
Il movente unico dei ragazzi che vogliono arrivare al successo è quello di fare soldi. Sembra questo il significato di “avercela fatta” di artisti come Lazza o Geolier. Dell’emancipazione culturale e dell’acquisizione dei propri diritti di cittadino, che erano punti centrali di artisti come Tedua o Ghali solo pochi anni fa, non v’è quasi più traccia. Può essere sia un momento di passaggio dovuto alla stabilizzazione dell’uso dei supporti, ma così davvero si fa fatica a pensare che questa scena possa ancora avere un senso.
Dei cantautori storici, insomma, resta l’attitudine a raccontare il reale, ma senza edificazione: quella sensibilità di voler fare, del mondo che li circonda, costruzione di senso artistico letterario attraverso abilità poetico-musicale. Non un bel progresso.