«In architettura si raggiunge l’eccellenza quando vi è un dialogo profondo e una completa intesa tra un progettista competente e un committente colto e conscio dei propri obiettivi. Il che vale per qualsiasi opera: biblioteca o stazione, palazzo residenziale o chiesa... Questa situazione ottimale è ben poco frequente, ma senza dubbio è più facilmente ottenibile nella progettazione delle chiese, perché in quest’ambito l’attenzione per la qualità del disegno prevale sugli interessi speculativi, che invece tendono a dominare in altri ambiti». Lo sostiene Andrea Longhi, docente di Storia dell’architettura al Politecnico di Torino nel commentare il volume
Architettura, Chiesa e società in Italia (1948-1978) (Studium, pagine 246, euro 23,00), scritto insieme col suo collega Carlo Tosco. Una pubblicazione importante, perché esamina come, nel periodo fondamentale del secondo dopoguerra, la cultura espressa dalle correnti di pensiero che operavano nella Chiesa, hanno dato luogo a opere che le rappresentavano nelle architetture costruite. Al centro dell’attenzione sta quanto è avvenuto negli anni ’50, l’epoca della ricostruzione: non solo di strutture fisiche ed economiche che il conflitto aveva smembrato, ma anche di un modello di società nuovo, di una democrazia compiuta, mentre le proposte ideologiche si dibattevano sullo sfondo dello scenario mondiale in cui imperava la Guerra fredda. Il contributo di Toschi, che oltre che architetto è anche teologo, riassume la storia dell’ecclesiologia di quegli anni e delle sue espressioni spaziali, «mentre la parte da me curata – spiega Longhi – è dedicata a come le tensioni ideali, e ideologiche, sia siano riflesse in alcune architetture di particolare valore emblematico: non sarebbe possibile infatti darne un rendiconto esaustivo, poiché stiamo parlando di decine di migliaia di chiese costruite e non c’è ancora una conoscenza approfondita di questo vasto fenomeno. Importante nel volume è il metodo seguito, che parte dall’analisi delle tendenze del committente, considera il Concilio Vaticano II (’63-’65) non come l’inizio di un’epoca nuova, ma come un momento di catalizzazione di un passaggio cominciato da tempo – come ha sostenuto Roberto Gabetti, quando i padri conciliari si riunivano avevano già visto chiese realizzate secondo modalità nuove, che privilegiavano l’assetto assembleare su quello basilicale tridentino, e probabilmente il loro pensiero era stato anche influenzato da queste – e, infine, evita di mettere in primo piano i maestri dell’architettura, ma indaga sull’atteggiamento degli intellettuali, dei teorici, dei pastori: don Milani, padre Lombardi, Luigi Gedda...».
Anche allora si nota una certa differenza tra chi predilige il mantenimento di architetture storiche e chi desidera esprimersi secondo i tempo corrente?«Sì, ma la situazione è complessa. Dall’Azione cattolica di Luigi Gedda, generalmente considerato campione di conservazione, ci si aspetterebbero architetture strettamente tradizionaliste. E invece troviamo scelte progettuali “moderne”. Per esempio la chiesa dei Santi Martiri Canadesi a Roma, del ’55, progettata da Ildo Avetta con alti archi parabolici o quella di San Leone Magno al Prenestino, a Roma, realizzata in soli dieci mesi tra il 1951 e il ’52, per celebrare il trentennale dell’Unione uomini di Ac, su progetto di Giuseppe Zander e secondo modalità neo-paleocristiane. A queste si può per contrasto paragonare la chiesa di Sant’Eugenio, realizzata negli stessi anni da Enrico Galeazzi come espressione prettamente vaticana e specificamente pacelliana, in stile marcatamente rinascimentale, tale che al guardarla fuori mai si direbbe che sia opera contemporanea. Emblematico, al proposito, ricordare le critiche espresse dalla rivista “Arte cristiana” di allora, che ben rappresentava l’atteggiamento del clero italiano: una bocciatura dell’architettura di Sant’Eugenio, e un’accettazione entusiasta delle opere d’arte in essa inserite, che erano invece tutte di autori quali Fazzini, che si esprimevano secondo le modalità dell’arte contemporanea. Gedda invece non esita ad accettare la modernità, per esempio si rivolge agli architetti torinesi che amavano la sperimentazione in corso da tempo in Germania».
Ci fu poi il momento di “Chiesa & Quartiere” a Bologna...«Il “progressista” cardinal Lercaro, patrono di C&Q, non ebbe remore a collaborare con architetti legati a Gedda. Nella Chiesa italiana c’era dibattito culturale ma anche la capacità di accettare chi la pensava in modo differente dal proprio. In modo tranquillo e con atteggiamenti miranti all’inclusività, non all’esclusività: forse più di quanto non avvenga oggi».