Partiamo da una costatazione: oggi con l’architettura si può fare tutto o quasi tutto. Si può fare tutto, e il contrario di tutto. Il primo ambito dove la tecnologia ha reso evidente che si stava andando in un futuro dove fra funzione e forma non esisteva più un legame a filo doppio, è stato il design. Significa che l’oggetto nella sua struttura tecnica è completamente ininfluente sul suo aspetto esterno perché il design gli sforbicia addosso l’abito che più gli piace.Questo, dopo decenni di funzionalismo e di razionalismo, venne vissuto dagli architetti come una vera liberazione. Fantasia, immaginazione, estro: significa che ciascuno fa quello che vuole, tanto di limiti ne esistono sempre meno, e nessuno vuole darsi norme troppo vincolanti se questo implica il sacrificio di una parte del proprio esuberante ego. Ma provate a immaginare questa “deregulation” nel-l’architettura, provate ad applicare l’“effetto design” agli edifici e alla città intera e avrete il famoso delirio delle archistar, che si riassume in due concetti: il lunapark e la
bigness . Il primo è facile ricondurlo al proliferare ovunque – senza distinzioni di luogo, tradizioni territoriali e nazionali, storie del gusto e vocazioni sociali –, del fantasmagorico gioco di forme spettacolari che hanno creato una sorta di
global style che rende tutti uguali gli orizzonti delle metropoli planetarie; l’altro, la
bigness , è sostanzialmente il gigantismo architettonico che si impone nel tessuto urbano di una città senza riguardo al contesto. Il prototipo fu, quasi quarant’anni fa, il Beaubourg di Parigi, progettato da Rogers e Piano; ma il vero teorico di questa categoria “invasiva” è Rem Koolhaas, l’ideatore dell’attuale Biennale d’architettura di Venezia, che si apre domani al pubblico. Il vocabolario inglese dilaga in questa cultura dell’esagerazione, che si ammanta di esuberanze barocche, ma è invece l’ultima espressione del capitalismo arrembante e inumano. Come un masso meteoritico, la
bigness cade sulle città con l’arroganza di chi non si preoccupa dei dissesti che combina. È una manifestazione estrema del realismo: la ragione è di chi ha la forza di imporsi alla storia. Darwinismo e visione storica marxista, in fondo, hanno partorito l’ibrido perfetto: la forza dei mezzi tecnici, che impongono la regola, ma soprattutto una lingua. Basti dire che lo slogan con cui, in passato, Koolhaas ha riassunto la
dynamis del gigantismo architettonico è l’eloquente e socialmente di moda:
fuck the context . Insomma, dito medio al contesto. Questo olandese che emerse sulla scena nel 1978 con uno straordinario saggio sulla genesi di New York, Koolhaas appunto, oggi è l’espressione suprema del pensiero post-ideologico e pragmatico delle archistar. Il sintomo più eloquente di questa mentalità è nella disinvoltura e la spudoratezza con cui i maggiori architetti del mondo progettano e costruiscono senza porsi problemi etici di rapporti coi committenti: speculatori, dittatori, affamatori di popoli, desertificatori di territori, vanno bene tutti, purché vogliano pensare in grande, spendere molto, immaginare architetture che assomigliano a giochi pirotecnici più che a spazi e mondi abitabili. Ma questa è una storia risaputa: gli architetti lavorano bene con chi ha potere. La novità, interessante, di questa edizione della Biennale è che Koolhaas ha voluto imprimere il suo marchio di fabbrica a tutta la rassegna, chiedendo anche ai padiglioni nazionali (solitamente svincolati dal tema generale della mostra) di seguirlo nel discorso, che si riassume nel titolo
Absorbing Modernity: 1914-2014. Detto in altri termini, Koolhaas ha chiesto a tutti di misurarsi coi corsi e ricorsi della modernità uscita dal ventre della Grande guerra. In che modo, insomma, la modernità ha lasciato il segno sulle città. Fosse vivo Bruno Zevi esulterebbe all’idea (forse molto meno per i risultati): che l’architettura, nella storia, sia stata spesso un oggetto eversivo, destabilizzante, è cosa nota; ma Koolhaas, dopo aver professato l’architettura estrema, adesso pare essersi convertito a un verbo “riformista”, dove guarda non più alle «addizioni erculee» (in senso metaforico), ma alle ibridazioni, agli innesti, alle disgiunzioni, alle soluzioni eclettiche (talvolta eretiche), al post-colonialismo nei Paesi tecnicamente e socialmente più arretrati, all’ecologismo dei materiali. Ma come diceva qualcuno tempo fa: il mercato è diventato maestro di vita sana. Nel senso che oggi paga essere «ambientalisti», sostenibili, geo, bio, eco, anche se poi gli stessi che professano queste idee progettano grattacieli che sfidano il chilometro d’altezza. Nell’ottica «assorbente» predicata da Koolhaas, il padiglione più interessante, e forse anche più bello nell’allestimento, è quello canadese, che illustra come la modernità interagisca nella parte artica di quel Paese, fino alla separazione del Nunavut, «la nostra terra», dai territori del Nord-Ovest, sancita legalmente quindici anni fa. Storicamente, è la terra fredda degli inuit (dove oggi vivono 33mila persone, di 25 comunità, su due milioni di kmq), e sorprende vedere come modernità e territori estremi (nel senso della abitabilità) possano interagire senza soverchiare i diritti di una tradizione abitativa singolare segnata dagli igloo. A seguire, il padiglione dei Paesi Nordici, con una mostra:
Forms of Freedom: African Indipendence and Nordic Models, che indaga come la cultura progettuale nordica abbia influito e interagito nell’Africa Orientale ( Tanzania, Kenya e Zambia) negli anni 60 e 70, col processo di decolonizzazione, in particolare attraverso l’opera svolta da Karl Henrik Nøstvik. E il Padiglione Italia, per la brillante impaginazione degli «innesti» (come li ha voluti chiamare il curatore, Cino Zucchi), che ripercorrono per esempio le trasformazioni di Milano mostrando i diversi progetti e avanzamenti del Duomo, lo sviluppo della verticalità, gli interventi 'istologici' di architettura moderna (da Gardella a Moretti, ai BBPR), fino ai rischi dell’Expo; e una seconda parte, dove il ventaglio si allarga al Belpaese e agli innesti veri e immaginari recenti. All’Italia peraltro Koolhaas ha voluto dedicare gran parte dell’Arsenale, con
Monditalia, dove nel
melting pot delle arti visive (inedita interazione di danza, teatro, musica, con largo spazio al cinema), si prende l’Italia come laboratorio per studiare l’orizzonte caotico delle città «globalizzate». Idea lusinghiera per noi, certo, ma, in realtà, è la sezione più pretenziosa di questa Biennale. Resta da dire, infine, del cuore «teorico» di questa edizione, che Koolhaas ha voluto allestire nella Palazzina dei Giardini attorno a quelli che lui chiama «elementi d’architettura», gli unici, dice, su cui oggi si può reimpostare il discorso architettonico. Ovvero tornando ai «Fundamentals», che dà il titolo generale a questa Biennale. Qui Koolhaas dimostra di essere un gran furbacchione, che mette a frutto quell’aura da guru che si è guadagnato negli ultimi due decenni oracolando idee e slogan come fossero il verbo nuovo dell’architettura. Enumeriamo questi elementi: pavimento, parete, soffitto, porta, tetto, finestra, facciata, terrazzo, corridoio, camino, bagno, scale, scale mobili, ascensore, rampa. Alla Palazzina dei Giardini Koolhaas compone una sorta di «archeologia» creativa dei singoli temi, che nella sala centrale, dopo l’ingresso, sono ripercorsi da una proiezione che monta insieme tanti spezzoni di film. Voi capite che qui sfioriamo il surrealismo. Forse agli architetti, oggi, si richiederebbe un po’ di sana, noiosa, pedante e pedagogica umiltà. Meno arte e fantasie pindariche e più competenza e progettualità. Una metodologia che praticava Giancarlo De Carlo, per esempio. Ma Koolhaas è uno sperimentato allestitore di showroom per gli stilisti di moda, vedi gli
stores che ha realizzato per Prada. E, in un certo senso, questa Biennale è una estensione di quel luogo.