Agorà

Epistolari. Jung-Pauli, dialogo sugli archetipi

BIANCA GARAVELLI martedì 19 gennaio 2016
Il rapporto fra analista e paziente può diventare amicizia, basata su di una stima profonda, e duratura. Se poi i due sono il fondatore della psicologia analitica Carl Gustav Jung e il premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli, allora da questa amicizia può nascere uno scambio di riflessioni tale da lasciare una traccia nella storia di scienza e psicanalisi. Abbiamo la fortuna di poter assistere, a distanza di decenni, alle fasi di questa relazione fra due giganti del pensiero, grazie a un carteggio ampio e sorprendente, che ha mantenuto la sua freschezza intatta. Pauli e Jung lo avviarono nel 1932, quando il fisico si era rivolto all’ex allievo di Freud per mettere fine ad alcuni disordini esistenziali che cominciavano a preoccuparlo seriamente. A sua detta, Pauli stava vivendo una serie di gravi fallimenti personali, soprattutto in campo sentimentale e in generale con l’altro sesso, mentre contemporaneamente otteneva successi planetari in campo lavorativo, che lo avrebbero condotto al Nobel per la formulazione del “principio di esclusione”, uno dei capisaldi della fisica quantistica. Dal punto di vista di Jung, quel professore universitario in crisi era un caso molto interessante, singolarmente legato, attraverso i suoi sogni che riusciva a ricordare nei dettagli, al mondo delle immagini arcaiche presenti nell’inconscio collettivo umano, quelli che Jung stesso definiva “archetipi”. Per studiare senza influenzarlo con i suoi presupposti quel “materiale arcaico” di cui Pauli si dimostrava così ricco, Jung lo indirizzò a una giovane analista, inesperta ma efficace, Erna Rosembaum, che cominciò a raccogliere scrupolosamente il racconto dei suoi sogni. In seguito, dal 1934, l’analisi continuò con lo stesso Jung, e i due continuarono a scriversi, sviluppando i nuclei che ne erano emersi, fino al 1957, l’anno prima della morte di Pauli, quando Jung aveva più di ottanta anni. Così, da quella che all’inizio era una terapia, sia pure condotta con un metodo per quel tempo nuovo e affascinante per il mistero su cui tentava di sollevare il velo, nacque uno stupefacente scambio di idee fra due menti non comuni, pubblicato per la prima volta a cura dello psicanalista svizzero Carl Alfred Meier nel 1992.  Ora il carteggio, che comprende ottanta lettere di varia lunghezza, alcune così ampie da potere essere considerate dei brevi saggi, è stato tradotto per la prima volta in italiano da Giusi Drago, per la cura del fisico teorico Antonio Sparzani, in collaborazione con l’analista junghiana Anna Panepucci: Jung e Pauli. Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (Moretti & Vitali, pagine 376, euro 30,00). Da queste lettere, piene di passione condivisa per la conoscenza, e di un’assoluta apertura verso ogni possibile sviluppo della ricerca, appare come i due studiosi si siano incoraggiati a vicenda a vivere un’esperienza straordinaria, un’esplorazione senza confini delle possibilità della fisica quantistica, allora agli albori, e della psicologia del profondo. I due nel corso degli anni scoprirono di avere più di un interesse in comune: per esempio l’alchimia. Mentre Pauli dichiarava di aver avuto un incontro decisivo con Robert Fludd, Jung rielaborava il concetto di Unus Mundus dell’alchimista Gerhard Dorn, sorta di fusione primaria fra dimensione materiale e spirituale, che forse gli avrebbe permesso di capire fino in fondo la natura dell’oggetto complesso e sfuggente dei suoi studi, la psiche umana. Ma negli ultimi tempi i due interlocutori affrontavano liberamente anche altri argomenti di assoluta attualità per l’epoca, purché sollecitassero la loro instancabile curiosità sull’uomo: per esempio, il fenomeno degli Ufo. Jung lo cataloga come un processo collettivo di individuazione: quella che chiama « la leggenda sugli Ufo » sarebbe un tentativo dell’inconscio di innalzare la coscienza collettiva, in un tempo di grave crisi spirituale, verso una totalità universale al di sopra dei conflitti. Pauli si rivela qui un incredibile creatore di sogni, la cui mente si avventura in mondi sconvolgenti ed entra in contatto con figure che lui stesso sembra in grado di interpretare. Per esempio, un inquietante personaggio maschile che sembrava volerlo dissuadere dalla ricerca scientifica, e che nei suoi commenti Pauli definisce «l’Antiscientista», gli appariva in sogno prima che si scatenassero inspiegabili incidenti, spesso a catena, in occasione di esperimenti di altri scienziati. Strumenti che si inceppavano, o cadendo si rompevano, addirittura a volte principi di incendi, tanto che c’era chi non lo lasciava nemmeno avvicinare al suo laboratorio quando doveva usarlo per qualche ricerca importante.  Era il fenomeno scherzosamente noto come “effetto Pauli”, sul quale lui stesso giocava, mettendo in guardia i suoi amici dal frequentarlo quando volevano chiudere felicemente un esperimento. Ma i sogni di Pauli erano abitati anche da una guida scientifica senza pari: Albert Einstein, che in sogno gli consigliò di ampliare la sua prospettiva, di abbandonare l’atteggiamento razionalistico e positivista, per aprirsi a un modo diverso di interpretare la realtà. Cominciò così la discussione feconda con Jung sulla natura autentica della psiche, e lo studio di quella che lo psicanalista avrebbe definito nel 1950 “sincronicità”': in molte lettere, lo sguardo di entrambi si appuntò su una sinergia possibile fra scienza e psicologia analitica per sciogliere il nodo intorno agli eventi cosiddetti “acausali”, non spiegabili con l’approccio scientifico tradizionale. Si può vedere qui come il contributo di Pauli alla formulazione della teoria di Jung sia stato essenziale.  Ma c’è di più: questo carteggio apre orizzonti nuovi al pensiero scientifico, ne mostra, in anticipo di almeno cinquanta anni, la direzione che oggi ha intrapreso. L’incontro fra psiche e materia sognato da Jung e Pauli oggi forse si sta attuando attraverso le neuroscienze, la disciplina attuale che più felicemente lo realizza. Jung stava perfezionando l’ipotesi che la psiche fosse un’entità almeno parzialmente materiale, e per questo in grado di influire così vistosamente sulla materia. Nel 2008 un neuroscienziato italiano, Giulio Tononi, ha proposto un’unità di misura per quantificare l’intervento attivo della mente nel reale: il Phi, che dovrebbe misurare la capacità di «integrare informazione» che sta a fondamento di un organismo cosciente. Una nozione che Jung, come si può dedurre dai numerosi scambi di pareri sul tema con Pauli, avrebbe sicuramente considerato con interesse.