Archeologia. Le tracce dell'uomo viste dal cielo
Se un tempo le ricerche degli archeologi partivano direttamente dal terreno oggi prendono avvio dal cielo e dallo spazio. Le scoperte venute alla luce negli ultimi anni stanno confermando che questa nuova strada è indispensabile non solo per rilevare il suolo e il sottosuolo, ma anche per preservare quel che è già stato portato alla luce. Spiega Nicola Masini dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Cnr, che da diversi anni si dedica all’archeologia satellitare: «Gli esempi di scoperte archeologiche attraverso l’uso dei satelliti e più recentemente dei droni, sono sempre più numerosi: dall’Italia, dove stiamo scoprendo e studiando siti neolitici in Basilicata, al Perù, dove insieme a Giuseppe Orefici, direttore del Cisrap (Centro italiano Studi e ricerche archeologiche precolombiane) abbiamo scoperto il “Tempio Sud” a Cahuachi, centro cerimoniale della civiltà Nazca». Rosa Lasaponara, dell’Istituto di Metodologie di Analisi Ambientale del Cnr segue anche progetti di monitoraggio di siti archeologici: «Abbiamo iniziato un lavoro con l’Agenzia Spaziale Italiana per seguire negli anni Villa Adriana, la grandiosa residenza di Adriano a Tivoli e stiamo controlliamo l’impatto antropico su diverse aree archeologiche. Un esempio è Foggia, un luogo ricco di aree storiche dove lo sviluppo dell’agricoltura partita negli Anni Cinquanta sta erodendo quelli che sono i segni in superficie di possibili reperti archeologici. E non ultimo stiamo seguendo l’area grecoromana di Metaponto, dove ci sono grossi problemi di erosione». Ma come e cosa guardano i satelliti dal cielo? Alcuni fotografano la superficie del pianeta fino a dettagli di pochi decimetri e quindi offrono fotografie di aree remote della Terra che altrimenti sarebbero costose e complesse da ottenere. Altri osservano in “bande spettrali”, ossia a lunghezze d’onda, in grado di rilevare nell’infrarosso, impossibile da vedere all’occhio dell’uomo. Ora, poiché i reperti sepolti di una certa consistenza originano variazioni sul contenuto di umidità dei suoli che li ricoprono o sulla vegetazione sovrastante rispetto ad aree vicine – caratteristiche che si osservano al meglio proprio nell’infrarosso – si capisce come un occhio esperto riesca ad individuare anomalie su mappe satellitari che altrimenti sarebbero difficili da osservare anche camminando sul terreno. Vi sono poi satelliti, Sopra, le linee di Nazca (Perù); a sinistra, insediamento neolitico a Lucera Immagini riprese dal satellite GeoEye che elaborate poi a “falsi colori”, permettono nuove scoperte come gli italiani Cosmo Sky-Med, che sono in grado di penetrare il terreno grazie ai radar. La risposta alle onde radio è diversa in rapporto a ciò che vi è nel sottosuolo. È un sistema ideale per indagare aree desertiche. Proprio le aree dei deserti sono oggetto di studio satellitare di una delle più note ricercatrici in questo campo, Sarah Parcak, la quale, per i suoi successi, si è conquistata il prestigioso Ted Prize 2016, con il milione di dollari che viene messo in palio ogni anno. Grazie alle immagini satellitari infatti, Parcak ha scoperto 17 piramidi, circa 3.000 insediamenti fino a oggi sconosciuti e un migliaio di tombe. Parcak, con il ricavato del premio, ha dato il via a un progetto di ricerca al quale possono partecipare non solo ricercatori professionisti, ma anche amatori dell’archeologia, proprio utilizzando mappe satellitari. Oggi quasi tutti i Paesi che possiedono tesori archeologici utilizzano i satelliti per cercarli. La Cina, per esempio, che per le sue dimensioni è la nazione con il maggior numero di aree archeologiche, sta operando con gli italiani in vari progetti. «Stiamo lavorando – spiega Lasaponara – per identificare i siti archeologici legati alla Via della Seta, perché ha preso il via la costruzione di una nuova via di comunicazione omonima ad alta velocità che collegherà l’estremo oriente della Cina con l’Europa. Compito del lavoro è quello di individuare i siti archeologici ancora sepolti così che non vengano distrutti dal passaggio della nuova strada e degli insediamenti che ne conseguiranno». Con la Cina sono in corso anche numerosi altri progetti. «Uno dei più importanti è la ricerca di antiche capitali sorte durante la dinastia Han (che governò il Paese dal 206 a.C. al 200 d.C.) – aggiunge Masini – e altre dinastie o di siti che dovrebbero essere sepolti sotto il deserto della regione dello Xinjiang». L’ultima frontiera dell’uso dei satelliti per l’archeologia è arrivata anche nello studio delle profondità marine per la ricerca di navi affondate in aree non molto lontane dalle coste. Secondo l’Unesco sarebbero almeno 3 milioni le navi di ogni epoca che giacciono sui fondali di tutto il mondo. Tra questi ci sono certamente i “classici” galeoni carichi d’oro, ma anche navi militari col loro carico di bombe e munizioni e mercantili di ogni epoca e con ogni genere di carico. L’interpretazione delle immagini satellitari si basa sul fatto che, quando una nave affonda, crea sul fondale una cavità che in particolari condizioni del mare può riempirsi di materiale molto fine. Quando si creano correnti d’acqua particolari però, il materiale fine all’interno della cavità viene risucchiato verso la superficie e crea scie ben visibili dal satellite. Non è certo semplice individuare l’oggetto sul fondale, ma le prove hanno dato ragione agli occhi esperti di ricercatori. Utilizzando 21 immagini del Landsat 8 gli autori della ricerca le hanno localizzato con precisione relitti già noti. Ora si tratta di scoprirne di nuovi. Recentemente l’archeologia è diventata oggetto di ricerca anche da parte dei droni soprattutto per cercare i crop marks, ossia le variazioni di vegetazione che sono causate dalla presenza di reperti archeologici sotto la superficie. La presenza di un muraglione ad esempio, influenza la crescita di colture al di sopra di esso perché incanala l’acqua per portarla via dalla sua area con conseguente riduzione della crescita della vegetazione. In questo modo i droni che possono realizzare indagini ad altissima risoluzione sono in grado di mettere in luce tali “disegni” della vegetazione che altrimenti sarebbero difficili da individuare camminando sul terreno. Con questa tecnologia Masini sta lavorando in Basilicata per studiare luce insediamenti neolitici.