Agorà

Intervista. Arbore, «'O sole» d'Istria

Lucia Bellaspiga domenica 2 agosto 2015
Dalla Cina all’Australia, dalle Americhe alla Russia, dal Giappone all’Europa intera: da un quarto di secolo porta la canzone italiana nel mondo. «Ma cantare con l’Orchestra Italiana dentro l’Arena di Pola sarà un’emozione non ripetibile». Parola di Renzo Arbore, che il 5 settembre per la prima volta terrà il suo concerto nell’anfiteatro romano della città istriana, l’unico al mondo che si affacci con le sue arcate di pietra candida direttamente sull’azzurro del mare. Da Pola e da tutta l’Istria e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale fuggirono in 350mila, gli italiani, mentre poche migliaia scelsero di restare, o vi furono costrette dagli eventi, subendo in silenzio decenni di regime jugoslavo. L’ultimo atto prima della diaspora nell’agosto del ’46 fu un memorabile raduno spontaneo proprio nell’Arena, dove i giovani di Pola accorsero a migliaia per cantare il Va’ pensiero, inno di ogni esule. Oggi però quelle terre si chiamano Slovenia e Croazia, cioè Europa, e a settant’anni di distanza il prorompere in tricolore di Arbore, ambasciatore ilare e raffinato della musica popolare più amata nel mondo, assume un significato storico. La rivincita – senza revanscismo – di un nuovo mondo di pace. Arbore, a invitarvi a Pola è stata l’Unione Italiana, che raccoglie ben cinquanta comunità di nostri connazionali rimasti sull’altra sponda dell’Adriatico. Come ha preso questo invito? «Con emozione e fierezza. È un evento che sento molto anche perché, da appassionato di storia, conosco bene le vicende dei nostri italiani giuliano-dalmati. Tanti anni fa incontrai la tristezza nello sguardo del mio amico Sergio Endrigo, esule da Pola, grande artista e uomo serissimo, molto riservato. E negli occhi di Laura Antonelli, anche lei polesana, che conobbi giovanissima quando era fidanzata con Mario Marenco e ricordo come persona amabile. Sarà un concerto vibrante e per me significherà molto: sono cresciuto con sentimenti di italianità, da bambino a Foggia sfilavamo tutti con ardore per Trieste italiana, sono sentimenti che non si dimenticano». Hanno scelto voi per rappresentare il volto bello dell’Italia, anche agli occhi dei concittadini croati o sloveni con cui vivono ormai da 70 anni. «Un bell’onore e una grande responsabilità. Siamo reduci da Mosca, dove l’ambasciata italiana ci ha invitati a tenere un concerto al Cremlino davanti a seimila russi, un successo clamoroso. Una delle missioni dell’Orchestra Italiana è proprio portare un’italianità bella, un’immagine pulita e solare attraverso i capolavori della tradizione napoletana e italiana in generale. L’Orchestra era nata per durare due o tre anni, invece dopo 25 anni la formula non invecchia e affascina in tutto il mondo. Siamo sedici musicisti, tra mando-lini, chitarre, percussioni, fiati, fisarmonica… e tutti e cantiamo, rivisitando i classici ma senza stravolgerli». Oggi patria e tricolore sono concetti sdoganati, ma lei li frequentava in tempi non sospetti. «Patrioti lo siamo sempre stati. Nel 1982 facevo la trasmissione Telepatria International, sfoggiando sullo smoking un allora controcorrente papillon bianco, rosso e verde. Era il primo programma patriottico della tv italiana, quando la sfilata sui Fori Imperiali sarebbe stata inimmaginabile. Poi sono seguiti anche anni in cui ci voleva coraggio a tenere alto il nome italiano all’estero (mi riferisco a scandali, figuracce internazionali, mafia e camorra) eppure c’è sempre stata una discrasia tra la situazione interna e l’ammirazione con cui ci guardano i popoli lontani, quelli che non sentono i nostri tiggì e ci adorano per la musica, l’arte, la cucina, la moda... Vorrei che le istituzioni avessero un’idea del grande lavoro che facciamo per l’Italia nel mondo, e non parlo di me, ma di maestri come Riccardo Muti o altri grandi dello spettacolo. Ovunque ci conoscono per la Ferrari, Prada, Giuseppe Verdi, Pinocchio, Pavarotti, Pompei, l’Ultima cena, ed è sacrosanto che giapponesi o americani facciano la standing ovation quando cantiamo ’O sole mio... Invece le istituzioni non fanno nulla per tutelare il patrimonio nazionale e di questo soffre anche la lingua italiana, sempre più dimenticata: il miglior volano per diffondere le lingue è la musica, io l’inglese lo imparai ascoltando le canzoni americane». Questo è l’anno di importanti anniversari per lei. Le sue trasmissioni segnarono un’epoca, al punto che tormentoni e battute sono rimasti nel gergo quotidiano. «Era il 1965 quando alla radio cominciai la mia carriera con Bandiera Gialla, il primo programma che portò la “swinging London” dei Beatles e dei Rolling Stones in Italia, rivoluzionando musica e costume. Poi, 30 anni fa, fu la volta di Quelli della notte. Negli anni ’80 ho fatto le cose migliori: forse eravamo un po’ frivoli ma dopo gli anni di piombo portavamo allegria e pacificazione anche politica. Con Cari amici vicini e lontani, con cui in tv celebravamo i 60 anni della radio, avevamo ogni sera 14 milioni di spettatori. Purtroppo quella tv di Falqui, Troisi, Enzo Trapani, non si fa più, ora è squallida e triste, senza velleità artistiche, solo l’obbligo di fare i grandi numeri». C’è speranza che lei ci torni? «Per raccontare questi anniversari ho ricevute varie proposte ma devono essere cose serie: non si possono rovinare anni bellissimi».