Televisione. Renzo Arbore: «Ritorno con Indietro tutta, ma per i millennials»
Allora la sua sigla era quasi un inno, vestito da canzoncina. Oggi è una certezza, non solo televisiva, purtroppo. In mezzo ci sono trent’anni. Di sicuro non i migliori della nostra vita, visto che nel frattempo è diventata «tutto un quiz». Indietro tutta, appunto. L’ammiraglio di quella bagnarola televisiva portò acqua benedetta per 65 seconde serate su Rai 2. Stesso canale navigabile stasera e il 20 dicembre (stavolta in prima serata) con i due protagonisti di allora, il deus ex machina Renzo Arbore e l’ex “bravo presentatore” Nino Frassica, stavolta alle prese con una ciurma di millennials . Così il nuovo Indietro tutta 30 e l’ode , con la partecipazione di Andrea Delogu, porta gli universitari in uno studio televisivo per vedere di nascosto l’effetto che fa «a un pubblico di giovani frequentatori della Rete quell’umorismo sgangherato, quella tv fatta di improvvisazione come se fosse jazz. Non è un programma per nostalgici, è un’allegra lezione didattica a chi è oggi abituato a programmi in cui le risate sono confezionate».
Arbore, quel programma segnò un’epoca. Si rideva, certo, ma il messaggio in fondo era molto serio...
«Sottotraccia, ma nemmeno tanto, c’era l’avvertimento che di lì a poco avrebbero comandato a livello culturale quelli più bravi a fare la televisione. Ma soltanto come ascolti, non certo in termini di qualità. Con le ragazze Coccodè c’era la satira sulle vallette intese come donne-oggetto in tv, e non solo. Il finto sponsor del Cacao Meravigliao simboleggiava la crescente onnipotenza della pubblicità nella vita della gente. Il pubblico che cantava significava un coinvolgimento che diventava poi asservimento. Poi l’indice di ascolto, che si alzava in certi momenti, decretava il successo e il presunto valore delle cose».
E la sigla, diventata un tormentone?
« La vita è tutto in quiz era la parodia di un inno fascista, per testimoniare che la nuova vera dittatura era diventata il telecomando della televisione. Una forma di apparente democrazia. Del resto la stessa democrazia è soltanto un male minore. Spesso è una dittatura mascherata, soprattutto in politica».
A che cosa si riferisce?
«Il caso più eclatante viene oggi proprio da quegli Stati Uniti a cui io ho sempre guardato con ammirazione. Trump è stato soltanto più bravo di Hillary Clinton a dire le cose che una certa America profonda ed egoista voleva sentirsi dire. In God we trust è un motto che in questo momento non corriposnde agli Usa e alla politica di Trump. Io sono cresciuto con il visionario e antirazzista Kennedy, erede di Lincoln. Quel sentimento è stato un richiamo per uno come me che dal jazz dei neri era partito, amando la musica e la vita. Sul mio comodino ci sono le biografie dei padri della nostra Patria, Garibaldi e Mazzini, e c’è Abramo Lincoln. Per questo oggi sento molto il dramma dei migranti. Per questo fenomeno epocale confido molto che venga compresa dagli Stati la lezione quotidiana di papa Francesco che continua a spiegare quanto questa questione sia il cuore del nostro tempo».
Da come parla sembrano lontani i tempi del suo ambiguo Pap’occhio...
«Ero solo un affettuoso film sul catechismo. Comunque sono stato perdonato. Invece cavalcare politicamente le paure della gente che teme l’invasione di africani e asiatici è quanto di più meschino ci sia. Ricordiamoci quando siamo stati migranti noi, che siamo diventati la spina dorsale della cultura americana».
Qui parla non solo da ambasciatore musicale, come da più di vent’anni fa con la sua Orchestra italiana.
«Beh, sono appena stato premiato anche a Montecitorio (ironizza, ndr ). Il 4 dicembre ho ricevuto il premio “Laurentum” per la diffusione della cultura attraverso l’invenzione di innovativi programmi radiofonici e televisivi. E con me è stata premiata alla memoria anche Mariangela Melato. A Napoli dieci giorni fa ho invece ricevuto il premio “Morante” insieme a Mogol. Ma il premio più bello è stato quello che ho fatto riconoscere dall’Università Federico II, dove mi laureai in Giurisprudenza con una tesi sulla servitù prediale, a Totò. Nella lectio magistralis che tenni, lo definii “grande consolatore”».
Perché?
«Durante il dopoguerra tutti i film che vedevo al cinema erano quelli del neorealismo e mi facevano sempre commuovere. Con Totò ho visto finalmente ridere di gioia le platee. Come quando arrivarono a liberarci i soldati americani. Io ero un bambino. Quella sì era la vera Great America, non quella egoista di Trump che proclama “America First”. Ma è la presunta democrazia che comanda. È come l’indice di ascolto, ma applicato alla politica. Vince il programma che più solletica gli istinti peggiori, lo show più becero».
Ed è questo che con Frassica il professor Arbore cercherà di spiegare ai millennials che navigano nell’indistinto mare magnum della Rete?
«Dell’esistenza della Rete bisogna ringraziare la Provvidenza. Certo, va governata e bisogna insegnare ai ragazzi a discernere. Chi la frequenta è impaziente di trovare le cose più eclatanti, ma la Rete ci permette anche di scrutare il passato che è la strada maestra per immaginare e progettare il futuro. È un compito che sento anche mio sollecitare le nuove generazioni a capire la forza della Rete anche in questa chiave. Con Indietro tutta 30 e l’ode ci provo. È un format un po’ sperimentale».
Lei è un assiduo navigatore?
«Direi avido. Internet è un mezzo straordinario. Ricordo la petulanza di noi bambini in epoca pretevisiva: mamma, adesso che faccio? continuavo a ripetere. Oggi sarebbe impossibile per un ragazzino pronunciare questa frase. Eppure i ragazzi sperimentano lo stesso la noia perché bisogna saper usare gli strumenti. In questo, bacchetto certa televisione che è davvero diseducativa. Certi programmi insegnano il vuoto, il nulla. In ossequio alla dittatura del mercato si cavalcano disvalori».