Intervista. APPADURAI: «Più speranza per il futuro»
Arjun Appadurai è un esperto di futuro. Non si occupa di tecnologie, però, a meno che non sia in qualche modo costretto a farlo. Il suo campo d’indagine sono semmai i processi dell’immaginazione, sfuggenti finché si vuole eppure determinanti nel plasmare il tempo che ancora dobbiamo vivere. Il futuro come fatto culturale (traduzione di Marco Moneta e Maria Pace Ottieri, Cortina, pagine XII+444, euro 29,00) è, non a caso, il titolo del volume che riunisce trent’anni di ricerche compiute sul crinale sottile fra antropologia e sociologia, fra studi postcoloniali ed emersione della mediosfera, fra vecchi e nuovi mondi. Come in altri suoi libri, anche qui molta attenzione è dedicata alle metamorfosi di Mumbai, la metropoli indiana (allora chiamata ancora Bombay) nella quale Appadurai è nato nel 1949 e alla quale ritorna spesso nonostante viva e lavori da molti anni ormai negli Stati Uniti, prima all’Università di Chicago e ora a quella di New York. «In termini di diseguaglianza, debolezza delle infrastrutture e conflittualità sociale, Mumbai è da considerarsi come un segno del futuro che ci attende – spiega lo studioso ad Avvenire –. Ma da Mumbai viene anche un’indicazione positiva: il cosmopolitismo espresso da questa città è la dimostrazione del contributo che può essere elaborato e condiviso anche a partire dalle situazioni più complesse». Atteso per mercoledì alla Triennale di Milano per la conclusione del ciclo “Meet the Media Guru”, Appadurai è stato spes- so accostato a un altro grande interprete della nostra contemporaneità, il teorico della «modernità liquida» Zygmunt Bauman.
Una formula che l’antropologo indiano non contesta direttamente, ma alla quale preferisce quella di «modernità in polvere» (è il titolo italiano del suo saggio più celebre, apparso originariamente nel 1996, tempestivamente portato nel nostro Paese dalla benemerita Meltemi e oggi in catalogo dalla stessa Cortina). L’espressione si riferisce agli esiti del logoramento al quale sono soggetti gli Stati nazionali, la cui sostanziale frantumazione sta aprendo spazi altrimenti impensati a una globalizzazione “dal basso”, promossa in modo più o meno consapevole da una pluralità di soggetti non riconducibili alle istituzioni tradizionali. «I politici sanno benissimo che cosa sta veramente accadendo – sottolinea Appadurai–, ma preferiscono servirsi del fenomeno per creare un populismo della paura, della rabbia e dell’odio, come dimostra in modo fin troppo convincente il caso di Donald Trump. Ciò di cui avremmo davvero bisogno sarebbe, al contrario, una politica capace di assumere su di sé le sollecitazioni provenienti dalla base per edificare società accoglienti, giuste e pacifiche ». «Le imponenti migrazioni di cui siamo testimoni – aggiunge – sono al tempo stesso causa e conseguenza di quello che potremmo definire come “cosmopolitismo dei poveri”. Ci si mette in viaggio perché si ha la visione di un mondo più grande; quando poi si riesce a raggiungerlo, si sviluppa un atteggiamento ancora più cosmopolita, necessario per sopravvivere». Per quanto attento agli aspetti della cultura materiale (si pensi al costante interesse riservato all’uso e al significato degli oggetti), Appadurai è particolarmente legato alle categorie, confinanti l’una con l’altra, di immaginazione, aspirazione e speranza. «La prima – spiega – è l’attitudine collettiva che ci permette di creare mondi e possibilità alternative.
L’aspirazione è invece il desiderio di dare realizzazione a queste stesse possibilità. Infine, la speranza è il sentimento che sostiene l’aspirazione. Ne risulta che le tre capacità sono intimamente e inseparabilmente connesse l’una all’altra». Lavorare sulla dimensione culturale del futuro espone, com’è facile intuire, al rischio dell’imprevisto. «Dalla metà degli anni Ottanta, quando ho iniziato a occuparmi di questi temi, alcuni fattori si sono imposti con una forza altrimenti impensabile – ammette Appadurai –. Mi riferisco all’avvento dei social media, alla svolta della politica globale verso destra e all’avanzata della violenza terroristica su scala transnazionale». Un elemento, quest’ultimo, sul quale lo studioso ha riflettuto a lungo, anche nella prospettiva della pratica gandhiana del satyagraha: «Nel mondo attuale – osserva – la noviolenza rimane un’opzione possibile, sia pure molto difficile da praticare a causa della militarizzazione di gran parte della politica.
Ma l’esempio offerto dal Dalai Lama e dal movimento per l’indipendenza del Tibet sono un’ottima conferma di come un’imponente lotta politica possa essere condotta senza alcun ricorso all’uso della forza». E la globalizzazione comunemente intesa? Sulle implicazioni economiche del fenomeno Appadurai si esprime in termini decisamente allarmati. «La finanza – sostiene – esercita il suo influsso su ciascuno di noi attraverso la presenza del debito in ogni aspetto dell’esistenza quotidiana. I prestiti, l’assistenza sanitaria, il costo dell’istruzione e la privatizzazione della previdenza sono i principali sintomi di questa situazione».