Fare i conti con il proprio passato. Sia quando è Storia che coinvolge un intero popolo sia quando è storia, esperienza personale. Così Antonia Arslan, la grande scrittrice del genocidio armeno, ha deciso di mettere in "lista d’attesa" – in qualche modo – il terzo romanzo, quello conclusivo della saga dopo La masseria delle allodole e La strada di Smirne, per raccontare il coma e la rianimazione, quel pezzo misterioso di esistenza in cui è precipitata un anno fa. Un bisogno prepotente, quasi «una persecuzione», come l’ha chiamata, di fissare sulla carta e dunque di far conoscere una dimensione parallela in cui «si vive sospesi, come un bambino nelle mani degli altri». Il libro – poche pagine, non un romanzo, piuttosto una raccolta di riflessioni – sarà concluso entro il 2010.
Professoressa Arslan, cominciamo dall’inizio: cosa le è successo la scorsa primavera?«Nella notte di Pasqua sono stata colta da dolori terribili alla schiena. Pensavo a una lombosciatalgia ma poiché non avevo farmaci adatti in casa, al mattino presto mi sono fatta portare all’Ospedale di Padova. Lì la situazione è precipitata: ho perso conoscenza e dopo qualche ora i medici hanno diagnosticato una setticemia causata da un calcolo renale. Sono stata intubata e mi è stato indotto il coma farmacologico. Ai miei parenti i medici dissero che avevo il 20 per cento di possibilità di farcela».
Cosa si ricorda di quei momenti?«Degli 8 o 10 giorni di coma non ricordo nulla, a parte la sensazione misteriosa del passare del tempo. Poi, nei 10 giorni successivi, la coscienza ha cominciato a riaffiorare man mano che tentavano di svegliarmi alleggerendo i farmaci che mi tenevano in coma».
Che sensazioni ha provato nella fase di risveglio?«Nella mente mi passava una serie di immagini che messe insieme costituivano una realtà parallela. Io ero convinta di trovarmi in una clinica di New York e non avevo dubbi che così fosse, tanto che mi sembrava incomprensibile come mai tutti intorno a me parlassero con accento veneto».
Un specie di dissociazione?«Sì, è così. Nel reparto di rianimazione tenevano la radio accesa tutto il giorno e ricordo che avvertivo la musica, le parole e persino gli spot. Non mi capacitavo: perché una radio americana mandava in onda pubblicità in italiano di locali sulla riviera romagnola? Insomma, vivevo sospesa in una dimensione parallela».
Avvertiva la presenza dei familiari?«Sì, sentivo mia figlia che mi accarezzava i capelli e mi parlava, io a tratti la riconoscevo e credevo di trovarmi nel giardino di casa».
Dunque non le procurava angoscia il fatto di non riuscire a parlare, anzi, al contrario, provava sensazioni gradevoli?«Durante la fase del risveglio avevo un tubo in gola per respirare: era terribile perché provavo continuamente una sensazione di soffocamento e insieme di una sete inestinguibile. Però non mi sentivo né frustrata né impotente. Anzi, ero fiduciosa di farcela. Mi sentivo come un bambino che si guarda intorno, non può parlare, con gli occhi trasmette richieste di aiuto e spera che qualcuno si accorga di lui».
Dunque dover dipendere dagli altri in tutto e per tutto non era angosciante, ma tranquillizzante?«Be’, non vorrei dare una visione edulcorata della mia esperienza. Ma ho sempre avuto la sensazione che mi avrebbero tirato fuori di lì. Sentivo la forza della mia vita e le infermiere che con le loro cure mi tiravano verso la vita. Le ho amate moltissimo, fanno un mestiere delicato e difficile eppure sono presenti, calde di vita e ti parlano, si raccontano, ti fanno entrare nelle loro storie personali. Gli assalti dell’angoscia, semmai, arrivavano di notte».
Perché di notte? In fondo, che differenza c’è tra giorno e notte in una rianimazione?«Perché le infermiere oscuravano la finestrella e io sapevo che era notte. E allora arrivava il senso del nulla, affioravano alla mente angosciosi fantasmi e la sensazione di essere attirata verso il nulla. Allora sì, mi sentivo totalmente sola, pur sapendo che le infermiere passavano regolarmente a controllare. Ma era lo stesso, la notte era il buio, l’angoscia che chiama».
Molta gente, uscita dal coma, preferisce dimenticare, non pensarci più. Lei invece ha deciso di fare il contrario: ricordare, scriverne. Perché?«Beh, è un desiderio potente che sento. La rianimazione è un’esperienza che mi è scesa in profondità. Grazie a essa ho riconsiderato tutta la realtà dell’esistenza, della morte, delle possibilità che la vita offre agli uomini. Voglio raccontare di questa realtà fragile che ho vissuto, che si allungava e si accorciava insieme, in una sorta di dimensione parallela, sospesa nel tempo. Questo desiderio potrebbe sembrare morboso ma per me non è così. Io voglio raccontare quello che vedevo, che immaginavo e la realtà parallela in cui ho vissuto per tre settimane. Compresi alcuni episodi divertenti».
È un po’ come con «La masseria delle allodole» e «La strada di Smirne»: scavare dentro se stessi e la propria storia, fare i conti con il passato...«Sì, ho cominciato a scrivere su piccoli foglietti qualche appunto – frasi, ricordi – per il terzo libro che sento di dover scrivere e che completa la storia della mia famiglia. Ma prima ho quest’altro libro da scrivere: ho iniziato come al solito, con appunti sparsi, poi qualche giorno fa, tornano in aereo da New York dopo le vacanze di Natale, ho scritto una paginetta intera di racconto dalla rianimazione. E ho sentito che quella sarà la prima pagina del libro. Sento che prima devo raccontare quello che ho vissuto in quella stanza d’ospedale e poi potrò terminare la storia della mia famiglia».
Pensa che la sua testimonianza potrà dare spunti di riflessione a tutti coloro che hanno parenti in coma?«Oso sperare di sì. Non pretendo certo di ergermi a modello, ma la mia è comunque una testimonianza di una vita sospesa che per vie misteriose chiedeva di tornare fuori».