Anniversario. Cinquanta sfumature del principe Totò
È facile oggi parlar bene di Totò. Quando era in vita, i critici specificavano: è un buon comico e potrebbe fare grandi cose, come dimostra, per esempio, la sua interpretazione a fianco di Aldo Fabrizi in Guardie e ladri addirittura premiata a Cannes, ma Totò si lascia andare, forse per amore dei soldi, a troppe porcherie, a film rozzi e volgari; e nel loro dire era ovviamente sottinteso: per un pubblico volgare.Non la pensavano allo stesso modo, quei tre o quattro registi che ne capirono appieno la diversità, l’eccezionalità, il valore. Mario Monicelli per primo, che si rammaricava di aver contribuito alla sua irreggimentabile umanizzazione strappandolo all’anarchia della maschera, e poi Pasolini (come dimenticare il fraticello di Uccellacci e uccellini, memore del Francesco rosselliniano, o la marionetta Jago condannata a essere cattiva di Che cosa sono le nuvole, con quel sublime finale che citava il Buñuel di Los Olvidados, Lattuada (emblematico in La mandragola il “dialogo” del fra’ Timoteo di Machiavelli con la morte, con un teschio? Anche se tagliato dai produttori e che andrebbe recuperato nella sua interezza), Rossellini (un trasandato Dov’è la libertà? apologo crudele e anti-neorealista ideato dal fondatore del neorealismo, che metteva radicalmente in discussione l’illusione neorealista della vittoria del bene sul male, a partire dai disastri di una guerra che aveva pur fatto 60 milioni di morti e dalla constatazione del perdurare delle umane bassezze, comparabile solo con il racconto di Bassani Una lapide in via Mazzini e infine Fellini, che rinunciò un po’ vilmente a usarlo (per esempio nel ruolo del nonno della Masina in Giulietta degli spiriti) ma che ne capì tra i primi la grandezza.
Non è vero che Totò non fu apprezzato come meritava, ma ad apprezzarlo non era una saccente borghesia e piccola borghesia perbenista, erano, tra gli intellettuali, quelli più liberi dai dogmi e dagli schieramenti della guerra fredda, e che avevano avuto a che fare con le avanguardie (Palazzeschi, per esempio, Savinio, Bontempelli, o un grande critico teatrale come Sandro De Feo; solo molto tardi dopo la morte i critici francesi scoprirono Totò, anche se Robert Benayoun, che veniva dall’area surrealista si accorse della sua genialità già negli anni cinquanta, semplicemente perché amava e frequentava l’Italia più vera) e tutto un enorme popolo di proletari e marginali, di artigiani e piccoli impiegati, di contadini ancora condannati all’analfabetismo, che nel dopoguerra si riconobbero nelle sue strampalate avventure dominate da sentimenti che ben conoscevano: la fame di cibo (gli spaghetti di Miseria e nobiltà!), di sesso (in un Paese di repressi e anche per questo ferocemente maschilista), di spazio (Totò cerca casa, le farse dell’avanspettacolo come l’anonima Camera fittata a tre), di riconoscimento (una fame, questa, che riguardava soprattutto una piccola borghesia priva di certezze anche sulla propria identità: «Lei non sa chi sono io!»).
Totò li (ci) vendicava tutti, con infantile e scatenata aggressività. Perché non era semplicemente "umano", era qualcosa di più, era una maschera, era uno strano diavoletto venuto dal profondo di un’antropologia contadina (le atellane nate a due passi dalla sua Napoli) e sottoproletaria (il vicolo della grande città borbonica) che nella lotta per l’esistenza portava la bizzarria dei travestimenti e delle soluzioni, la quasi infinita varietà dell’ "arte di arrangiarsi". «Che mestiere fai?» chiedeva Danilo Dolci nelle sue inchieste ai disoccupati delle piazze siciliane, e c’era chi, sconcertandolo, gli rispondeva «l’industriale»: uno che si industria!Ma la sua era anche, come scioccamente non vollero capire i critici cattolici, una comicità spesso e volentieri "metafisica": la marionetta disarticolata che si ribella alle leggi della gravità, lo scatenarsi di un fisico che sembra voler uscire da sé, un’anima malvolentieri costretta a un corpo, la tensione verso qualcosa che non si sa cos’è ma che si sa che c’è; il "nuovo nato" al mondo che così spesso incarnò nei suoi lavori teatrali, dall’ingenuo Gelsomino dei primi avanspettacoli al Figlio di Jorio, a Tarzan, all’Orlando curioso delle grandi riviste scritte con Michele Galdieri e interpretate a fianco di una partner come "la Magnani". Sono certo che Antonin Artaud avrebbe certamente amato Totò se avesse potuto vedere un suo spettacolo, un suo film e gli avrebbe dedicato un capitolo del suo Teatro della crudeltà così come fece per i Fratelli Marx.
L’attuale venerazione per Totò è però assai ambigua, perché viene da parte di un popolo che non può più tornare a essere quello degli analfabeti e dei proletari di un tempo, decisamente rovinato, avrebbe detto Pasolini, dalla televisione e dal benessere. Eppure... eppure questi nostri anni dimentichi di tutto se non di un eterno presente da lotofagi, avrebbero bisogno nel loro nuovo disordine e nelle loro nuove ansie di sopravvivenza individuale e collettiva, del mondo, di un qualche nuovo Totò che, venendo da ieri, sapesse mostrarci le difficoltà e le paure dell’oggi. Di Totò avremmo bisogno, non dei comici da cabaret e da televisione, quelli che Totò non amava, i raccontatori di barzellette consolatorie, sui piccoli tic di una quotidianità alienata. Far ridere è un’arte, come ci hanno spiegato Rabelais e Shakespeare, Charlot e Ollio-e-Stanlio, Pirandello e Bergson. Un’arte rara e grave, di cui si è perso il segreto.