Agorà

Spiritualità. Tutto il bello dell'Anima secondo il poeta François Cheng

Roberto Righetto venerdì 2 febbraio 2018

Il poeta cinese naturalizzato francese François Cheng

«Alla fine, resta l’anima. In ogni essere, il corpo può conoscere la decadenza e la mente la menomazione. Resta questa entità irriducibile, che vi palpita da sempre, che è il segno della sua unicità». E ancora: «È un misto di evidenza e di mistero, è di una sorprendente semplicità, anche se, al contempo, è di una complessità sbalorditiva, come gli studi di psicologia e di psicoanalisi hanno dimostrato». Così François Cheng, poeta e filosofo cinese naturalizzato francese, calligrafo e traduttore, figura poliedrica capace di meritarsi di entrare fra gli Immortali, nel suo ultimo breve saggio L’anima, da poco edito in Italia da Bollati Boringhieri (pagine 136, euro 15). Che insiste: «Non dimentico i tre ordini di Pascal, che faccio miei. Nell’indispensabile triade corpo-spiritoanima, riconosco pienamente il ruolo fondamentale del corpo e il ruolo centrale dello spirito, ma dal punto di vista del destino dell’individuo, è l’anima ad avere la meglio». Nel suo libro egli ci rammenta la distinzione biblica fra corpo, spirito e anima così come fu elaborata da san Paolo e ripercorre, attraverso la forma di sette lettere scritte a una giovane incontrata sulla metropolitana, gli sforzi di pensatori e poeti alla ricerca dell’anima. E lancia una sfida a quei neuroscienziati che sono giunti ad affermare che il cervello è pura materia. Tutti, secondo Cheng, si sono domandati cosa è l’anima ma ben pochi sono stati in grado di rispondere. Una difficoltà che permane ancor oggi: sia nel caso dei teologi e dei filosofi come degli psicologi e dei fisiologi, emerge quasi l’impossibilità a sondare l’insondabile, a definire ciò che è indefinibile.

Eppure, dell’anima noi a parte gli scientisti radicali - non dubitiamo anche se non riusciamo a designare il suo posto preciso, o la sua stessa sostanza. Ma Cheng è sicuro che essa è legata alla bellezza e alla bontà. Quella bellezza che in sant’Agostino scaturisce dall’incontro dell’interiorità di un essere e dello splendore del cosmo che per lui è il segno della gloria di Dio. Da tempo ormai Cheng rivisita a suo modo «il vero, il bello e il buono », le categorie di Platone fatte proprie da Tommaso d’Aquino, aggiungendo alla visione occidentale la sua esperienza di poeta e la tra- culturale asiatica in cui si sente ancora immerso nonostante viva a Parigi dal 1949, scampato dal comunismo maoista. Molti sono i suoi riferimenti al taoismo ed egli cerca nel suo sforzo speculativo di unire il meglio delle culture di cui si è nutrito, pervenendo a una sintesi fra Oriente e Occidente. Non a caso, allorché prese la nazionalità francese nel 1971 ha scelto il nome di François in onore di san Francesco d’Assisi. E innumerevoli sono in questo breve saggio i riferimenti alla tradizione cristiana, dalla mistica Ildegarda di Bingen («il corpo è il cantiere dell’anima») al poeta Pierre Emmanuel che in un verso ricorda «il guscio del corpo che s’incrina sotto la veemenza dell’anima » allo scrittore Georges Bernanos, che fa dire a Blanche de la For- nei Dialoghi delle Carmelitane: «Quella semplicità dell’anima, noi consacriamo la nostra vita ad acquistarla ».

Ma il capitolo più sorprendente è quello dedicato a Simone Weil, la cui vita stessa è in grado di rappresentare il concetto di anima. Per la filosofa e mistica francese lo spirito è quella capacità dell’essere umano che gli permette di capire e razionalizzare la sua vita. Può essere definita anche mente o intelletto e, in quanto strumento di conoscenza, è fondamentale ma, come il corpo, è al servizio dell’anima, che è l’humus nativo e irriducibile di ogni essere. Descrivendo il suo desiderio di farsi cristiana, il viaggio compiuto ad Assisi e poi all’abbazia di Solesme, il suo incontro folgorante col Cristo, anche attraverdizione so l’amicizia con padre Perrin e il contadino-filosofo Gustave Thibon,

Cheng conclude che «Simone Weil non dubita del fatto che lo stato ultimo di ogni essere sia la sua anima, che ha assorbito in sé i doni del corpo e dello spirito, e che ha una parte già situata nell’altro mondo». Spezzando il sarcasmo voltairiano che in nome dell’intelletto ( esprit) nella sua accezione più ristretta disprezza fino a cancellare l’idea di anima, ma anche il dualismo cartesiano (entrambi hanno portato a un clima «chiuso e inaridente» che predomina in Francia e in Europa), Cheng riesce a mostrarci come l’anima sia tutt’altro che una convenzione che si è preservata solo nell’uso linguistico (“anima gemel-la”, “supplemento d’anima”, eccetera), ma la parte più intima, più sece greta, più inesprimibile e al contempo più vitale di ogni essere, il segno indelebile dell’unicità di ogni persona umana. Come ci ricorda un passo da lui citato del premio Nobel della letteratura Gustave Le Clézio: «La grande bellezza religiosa è di aver concesso a ciascuno di noi un’anima. Strana presenza nascosta, ombra misteriosa che si è calata nel corpo, che vive dietro il viso e gli occhi, e che non si vede. Ombra di rispetto, segno di riconoscenza della specie umana, segno di Dio in ogni corpo».