Novecento. Andreotti, La Pira e l’“arma” della pace
Firenze, 28 aprile 1962: Giulio Andreotti consegna simbolicamente le chiavi della Fortezza da Basso al sindaco Giorgio La Pira
«Questo è il punto di fondo che mi unisce a te, perché tu capisci una cosa di immenso valore storico: l’orazione dei monasteri di clausura, forza vitale, che Cristo inserisce nel corpo delle nazioni cristiane ed alla radice stessa della autentica civiltà cristiana!». È il 18 maggio 1965, Giorgio La Pira scrive a Giulio Andreotti. Il “sindaco santo”, da poco scalzato a Palazzo Vecchio dal socialista Lelio Lagorio, si rivolge da “soldato semplice” al ministro della Difesa: «Questo Ministero ha un bilancio: spende per le armi etc. etc: ebbene: perché non creare anche un “capitolo” per le armi efficacissime, “nucleari” dell’orazione (delle cittadelle dell’orazione) in Italia e nel mondo?... Tu intuisci cosa io voglio dire! Pensaci: la cosa è più seria e più tecnica di quanto non si pensi: e tu questa visione soprannaturale la possiedi! So che tu non riderai di questa proposta, so che ci penserai e forse che l’attuerai (in qualche modo)». L’amicizia che non ti aspetti fra l’utopista e il politico descritto come inossidabile espressione del potere democristiano. La lettera fa parte dell’Archivio Andreotti, donato all’istituto Sturzo, una miniera che ha fornito il materiale, insieme alla Fondazione La Pira, allo storico Augusto D’Angelo per scrivere, raccogliendo ben 165 lettere, un saggio molto interessante - «Bisogna smettere di armare il mondo». Giulio Andreotti-Giorgio La Pira. Carteggio (1950-1977) (Polistampa, pagine 294, euro 23,00), illuminante per capire che cosa sia stata la Dc, e che cosa tenesse insieme personalità distanti, apparentemente opposte.
A unirli l’approccio politico comune che teneva in egual conto il particolare e l’universale e la comune fiducia nel valore, persino nell’utilità, della preghiera. In una lettera dell’anno precedente da Bangkok Andreotti aveva scritto a La Pira: «Ho trovato una comunità claustrale di cappuccine, composta di suore fiorentine e di suore siamesi. Attraverso la ruota (in un colloquio che non mi sarà facile dimenticare) la superiora mi ha parlato delle tue lettere e dei tuoi aiuti, pregandomi di portarti il loro ricordo e l’assicurazione della preghiera quotidiana. Sono esperienze che allargano i polmoni». Tre giorni dopo, il 29 ottobre 1964 La Pira, ancora sindaco, gli scrive per giustificare l’assenza al consiglio Nazionale della Dc per impegni che lo trattengono a Firenze: «La Dc assolverà tanto più il suo mandato storico e politico quanto più essa si mostrerà come stella della speranza storica piena di pace, di progresso e di luce cristiana per il popolo italiano per i popoli della Europa e del Mediterraneo e di tutti i continenti».
L’affermazione «bisogna smettere di armare il mondo» rappresenta «un imperativo da tenere nel cuore e nella mente in un periodo come quello in cui siamo immersi, di facile corsa al riarmo», scrive il cardinale Matteo Zuppi nella prefazione. È tratta da una breve lettera ad Andreotti dell’11 agosto 1977 e la preoccupazione che muove La Pira, in quella fase, è la corsa alla bomba al neutrone, contro la quale chiede una ferma presa di posizione dell’Italia. Una sorta di testamento spirituale, La Pira morirà il 5 novembre di quell’anno. Un legame «caratterizzato da amicizia, da appartenenza alla Chiesa e dalla necessità di tradurre in risposte politiche l’ispirazione cristiana». Quindici anni di differenza e una differente formazione, maturata, per Andreotti, tutta in ambito cattolico, in famiglia e negli studi, dai Gesuiti alla Fuci. Mentre La Pira alla fede ci arriva in tarda gioventù, dopo un’impetuosa ricerca che lo portò alla fine a diventare terziario domenicano e francescano e poi a i voti perpetui di castità, povertà e obbedienza. A colpire per la prima volta un giovane Andreotti, lo ricorda Zuppi, fu un La Pira che «nel settembre 1942, parlava con entusiasmo della pace davanti a un podestà fascista di Assisi in grave disagio, ma anche affascinato dal quel singolare oratore». Un “santo scomodo”, lo definì Andreotti, «le cui posizioni obbligavano sempre a porsi domande importanti». Ma a rafforzare il legame è anche l’attenzione agli ultimi, la «Messa del povero», avviata da La Pira a Firenze, trasferita poi a Roma «dapprima nella chiesa trasteverina di Santa Cecilia e poi nella chiesa di San Girolamo della Carità», quella dell’oratorio di san Filippo Neri.
L’ “universale” della pace, la sua «inevitabilità», in questa «nuova stagione del mondo» (come scrisse La Pira in un’altra lettera del 1964). Dei colloqui tra cristiani, ebrei e islamici tenuti a Firenze, che Andreotti definì «una semina che in tutto il mondo arabo ha lasciato un segno incancellabile». Ma anche il “particolare” delle battaglie per il lavoro a sostegno degli operai della ex Pignone, delle officine Galileo, della Manetti e Roberts. Della richiesta di aiuti economici per i concerti a Palazzo Vecchio («Abbi fede caro Andreotti - gli scrisse -, ci vuole meno “machiavellismo” e più “poesia”») e poi per il drammatico alluvione di Firenze del 1966, quello degli “angeli del fango”. E le richieste all’amico al governo per evitare che gli sfrattati finissero per strada. La polemica con Confindustria e la richiesta di un intervento dello Stato a salvare i posti di lavoro furono all’origine di un’accesa polemica a distanza con don Sturzo, contrario all’intervento statale in economia. Questo e altro gli valse l’epiteto di “comunistello di sagrestia”. In realtà La Pira vide nei comunisti degli alleati preziosi nella difesa degli ultimi e nelle iniziative per la pace, ai tempi della Guerra fredda, ma fu anche intransigente difensore sul terreno dei valori e dei principi. Nell’ultimo anno di vita quando s’annuncia l’approvazione della legge sull’aborto si rivolge a Enrico Berlinguer e tempesta Andreotti di messaggi per scongiurare una norma che definisce in un telegramma «vero delitto del secolo contro legge di Dio e su cui altrimenti il Signore ci farà tanto soffrire». Andreotti ha sempre sostenuto che l’unico suo vero cruccio fu proprio la firma apposta, sia pur come atto dovuto, a quella legge. Di questo quasi quarantennale rapporto resta, per Zuppi «una tensione al bene comune che alla fine ricomprende tutto, l’attenzione al singolo, alla città, al proprio Paese, alle relazioni internazionali, al bene prezioso della pace». E alla dottrina sociale della Chiesa, «vissuta più che dichiarata».