La prima. Chailly e Eyvazov vincono la sfida: Andrea Chénier trionfa alla Scala
Anna Netrebko e Yusif Eyvazov in "Andrea Chénier" al Teatro alla Scala (Ansa)
Andrea Chénier ha vinto. Nonostante tutto. Nonostante qualche buu che non è comunque riuscito a rovinare la festa. Perché il ritorno al Teatro alla Scala dopo trentadue anni dell'opera di Umberto Giordano, che proprio a Milano aveva debuttato il 28 marzo 1896, è stato un trionfo. Undici minuti di applausi, fiori durante le uscite finali ieri sera per l'inaugurazione della stagione scaligera.
E l'esito, alla vigilia, non era così scontato. La tensione, inutile negarlo, si avvertiva: titolo che mancava da tanti anni, tenore sul quale in diversi avevano perplessità e che qualcuno era pronto a fischiare senza nemmeno averlo sentito. Invece Yusif Eyvazov ha vinto la sua sfida. Lo capisci bene alla fine. Quando Andrea Chénier risponde deciso al carceriere che lo chiama al patibolo «Son io». Un signore in platea anticipa Eyvazov. Dice - perché, certo, conosce bene l'opera - quel «Son io» un po' a denti stretti. Gli occhi lucidi. Avverti la frase che si rompe in gola. Un attimo e capisci che è tutto lì il senso dell'Andrea Chénier di Giordano che ieri sera ha inaugurato la nuova stagione della Scala con una dedica a Victor de Sabata a cinquant'anni dalla morte. In quel «Son io» detto al presente, ridetto oggi dopo aver ascoltato una musica scritta più di cento anni fa. Ma che, potenza della lirica, parla (ancora) di noi.
Riccardo Chailly ci crede. Crede in Andrea Chénier. C'era lui sul podio trentadue anni fa. C'è ancora oggi con una lettura intensa dove a venire in primo piano sono gli uomini. Il direttore d'orchestra milanese stacca tempi millimetrici, che conferiscono passo teatrale al racconto del compositore foggiano di cui si ricordano i cento cinquant'anni dalla nascita. Crea ambienti sonori nei quali la storia si specchia perfettamente: il Settecento lezioso del primo atto, l'euforia dei moti rivoluzionari, la rabbia del processo con il popolo che chiede sangue. E il dolore che si fa sacrificio d'amore.
Il direttore d'orchestra milanese fa della partitura un sismografo dell'anima dei personaggi dove ogni gioia, ogni dolore, ogni pianto è registrato. L'orchestra e il coro, preparato ad arte da Bruno Casoni, assecondano ed esaltano la lettura di Chailly, festeggiato con un bravo maestro già dopo l'inno di Mameli. Il direttore vince la sfida di riscattare il Verismo che non è, dice con la sua lettura raffinata, musica di serie B.
La tensione si è sciolta già verso le 18.20: parte l'accordo dei violini sul quale si innesta l'arpa, l'attacco del celeberrimo Improvviso, e tutti gli occhi sono puntati su Yusif Eyvazov. “Un dì all'azzurro spazio guardai profondo” canta il tenore che non stacca un attimo gli occhi dal podio. Chailly non lo lascia un attimo. Acuti sicuri, colori e intenzioni. Eyvazov si porta a casa anche un "Bravo" e un timido applauso che qualcuno azzarda andando contro la richiesta del direttore di non applaudire per non interrompere il flusso della musica.
Chailly canta ogni parola, respira con gli interpreti. Con Eyvazov che vince la sua sfida modellando la sua voce il suo timbro particolare, dosando le forze, mettendo in campo una tecnica che dice il lungo lavoro di studio sul personaggio: acuti sicuri, fiati interminabili, sfumature e mezzevoci fanno del suo Chénier un'anima pura, un uomo che ha ideali per i quali è disposto a morire per non cedere al compromesso. Con Anna Netrebko che è un'intensa Maddalena: il soprano debutta nel ruolo e vince con la sua voce che sa piegarsi alla scrittura in per via di Giordano. Con Luca Salsi che offre una prova intensa intenso nel restituire il dramma interiore di Gerard, servo che diventa capo della Rivoluzione, sempre innamorato di Maddalena, ma capace di lasciarla al suo vero amore.
Personaggi in costumi del Settecento - li ha disegnati Ursula Patzak - ma che potrebbero camminare per le nostre strade. Perché Andrea Chénier è ciascuno di noi. Lo dice il regista Mario Martone con uno spettacolo dal taglio cinematografico, dove campi lunghi e primi piani si alternano in un montaggio in dissolvenza, con le scene che si fondono una nell'altra. Un continuo passaggio tra dentro e fuori con Martone che moltiplica i luoghi dell'azione previsti dal libretto. Scene di Margherita Palli come quadri di Delacroix e David, con tagli di luce e un'umanità che sembrano usciti da una tela di Caravaggio.