«Sono gli ultimi anarchici»: il giudizio perentorio, severo e vagamente riecheggiante l’idea di una specie in estinzione, si riferisce ai ciclisti ed è uno dei tanti commenti che sono stati sollevati da una performance dell’artista austriaco Rainer Ganahl, che percorse le strade di Roma, da piazza San Pietro a piazza della Repubblica, pedalando contromano, senza toccare il manubrio e con una telecamera fissata sul casco per riprendere il tutto. Era l’ottobre 2006. In precedenza Ganahl aveva compiuto gesta simili a New York, Los Angeles, Hong Kong. Negli anni seguenti ha continuato a Mosca, Berlino, Stoccarda, Graz, recentemente a Innsbruck... Una sorta di pellegrinaggio in favore della bicicletta e contro i mezzi inquinanti. Rainer è ovviamente un ottimo ciclista, ma è anche fortunato: pedalare senza mani nel traffico è infatti uno tra i comportamenti più pericolosi che si possano tenere.Già di per sé la bicicletta è il mezzo di trasporto maggiormente esposto a rischio. Secondo dati rilevati a Milano nel 2000, chi si muove in bici presenta il tasso di mortalità più alto nel traffico cittadino, seguito nell’ordine da quello di pedoni, di ciclomotori e moto, auto e mezzi pubblici (quest’ultimo praticamente insignificante). E, secondo dati milanesi del 2005, procedere contromano è una causa cospicua degli incidenti di bicicletta, riguardando il cinque per cento di questi. Tuttavia negli ultimi tempi ferve un dibattito sull’uso della bici in senso vietato. La sua origine è lontana: è infatti generalmente accettato che per i pedoni sia più sicuro camminare sul lato sinistro della strada, per vedere da lontano le automobili che sopraggiungono. Già da tempo in molti Paesi europei vige il permesso di andare in senso vietato anche in bicicletta: non generalizzato ma in zone definite delle città. Questo vale in Francia, dove nel 2008 si introdusse nel Codice della strada il concetto di “controsenso ciclabile”, dopo che una piccola città dell’Alsazia, Illkirch-Graffenstaden, l’aveva sperimentato con successo per cinque anni. In Belgio dal 1998 ai veicoli a motore è imposto il “senso unico limitato”, e dal 2004 è stato generalizzato a tutte le strade a senso unico che abbiano i requisiti necessari per consentire il passaggio delle bici in senso inverso (velocità massima inferiore ai 50 km/h, larghezza minima di tre metri). In Germania, dove tra il 1991 e il 1992 è stato sperimentato in novanta strade a Saabrücken, si è riscontrato che aumentava la sicurezza poiché facilitava il contatto visivo tra automobilisti e ciclisti, e inoltre favoriva il diffondersi dell’uso della bicicletta. Analoghe esperienze sono state fatte in Svizzera, Olanda, Austria, recentemente in Inghilterra...Anche in Italia diverse città hanno adottato tale prescrizione. Fra queste ci sono Lodi, Ferrara, Piacenza, Bolzano, Merano, Abbiategrasso, Reggio Emilia. E allora c’è da chiedersi perché a Milano diversi ciclisti che vanno contromano sono vittime di incidenti, mentre in tante città la pedalata in senso vietato viene vista come una condizione di sicurezza. Le ragioni sono spiegate, per fare un esempio, in un documento intitolato
Mobilità ciclistica nelle città e nei paesi pubblicato nel 1994 dall’automobil club tedesco (Adac, Allgemeiner Deutscher Automobil Cub). Vi si sottolinea che lo scopo che persegue l’introduzione dei sensi unici è di regolare solo il traffico automobilistico: un’osservazione che può apparire banale, ma che implica un cambio di prospettiva. Spesso infatti siamo giunti a considerare l’automobile un dato di fatto, quasi che sia connaturata al vivere civile. Ma questo forse ha qualcosa a che fare col fatto che tra i Paesi europei l’Italia è quella col maggiore tasso di auto circolanti (oltre 570 ogni mille abitanti) dopo il minuscolo Lussemburgo (oltre 690) ma prima dell’Austria e della Germania (meno di 560) e molto più avanti della Francia (meno di 500) e della Gran Bretagna (poco più di 450). L’argomentazione del documento tedesco implica invece il presupposto che la città esiste prima dell’auto, ed è stata successivamente modificata (tra l’altro con l’introduzione dei sensi unici) proprio in funzione dell’auto. Questo comporta che si possa anche fare un passo indietro, e cambiare la mobilità automobilistica in favore di una migliore qualità della vita urbana. Infatti, spiega il citato documento, la possibilità di circolare in bici nei due sensi di marcia sulle strade a senso unico presenta vari vantaggi: permette di completare senza grosse spese i percorsi ciclabili urbani che a volte sono irti di interruzioni. E, sollecitando tramite appositi cartelli l’attenzione degli automobilisti verso i ciclisti, mette in risalto la presenza di questi, strappandoli alla condizione di “cenerentole della strada”.Anche negli Usa si muovono in questa direzione: a marzo la Federal Highway Administration (Fhwa. “Amministrazione federale delle strade”) ha sancito che nelle strade si possano stabilire corsie che consentano ai ciclisti di muoversi in direzione opposta a quella delle auto. A differenza degli incidenti che accadono se i ciclisti decidono per proprio conto di andare contromano, dove questa possibilità è regolamentata si genera semplicemente un ordine diverso: l’auto non è più la padrona incontrastata della strada. Deve ridurre la velocità e procedere con attenzione: ne traggono vantaggio anche i pedoni. Nelle condizioni in cui è chiaro che la circolazione veicolare è la causa prima degli incidenti e una causa grave dell’inquinamento atmosferico, facilitare l’uso delle biciclette è una scelta inevitabile. Forse sono gli automobilisti urbani, coloro che dovrebbero considerarsi una specie in estinzione.REGGIO EMILIA, LA CITTA' DEI CICLISTIReggio Emilia nel 2005 ha varato un’ordinanza che ha permesso alle biciclette di circolare in senso vietato nel centro storico. All’architetto Paolo Gandolfi, assessore alla mobilità, chiediamo che cosa è cambiato con quella decisione. «Per quanto allora non fossi in carica, so che con quell’atto si è, tra l’altro, recepito un dato di fatto: già molti circolavano in centro senza troppo badare ai sensi vietati. E si è sancito un principio di buon senso: che il centro storico è per i pedoni e per le biciclette, non per le auto».
Ma perché costringere anche i ciclisti a compiere lunghi giri? «Si è posto il limite di velocità a 30 km/h e si è introdotta una segnaletica opportuna che avverte gli automobilisti della presenza di biciclette in direzione contraria: ma sempre sul lato destro di marcia».
Non vi sono stati incidenti? «Non che io sappia. Importante è che vi siano regole chiare, ragionevoli e rispettate da tutti: anche dai ciclisti. Vi sono invece problemi di sicurezza per le piste ciclabili: nelle intersezioni. Alcune piste hanno doppio senso di marcia, così le auto trovano al loro lato biciclette ma marciano nello stesso verso e nel verso opposto. Nel caso di attraversamenti però i conducenti sono abituati a guardare prima a sinistra e poi a destra, e alcuni guardano a destra solo dopo aver cominciato l’attraversamento: in questo caso, se sopraggiunge una bicicletta dall’altro lato non è vista in tempo. Lo stesso può accadere dietro una svolta. Non solo: vi sono anche i vizi di comportamento. Gli automobilisti tendono a considerare la bicicletta come veicolo se la vedono in strada, ma se la vedono nello spazio laterale le riservano il trattamento dei pedoni e si aspettano di poter passare per primi anche se non hanno la precedenza. I ciclisti invece, sentendosi protetti dalla pista, desiderano far valere la precedenza che spetta loro...».
Eppure Reggio Emilia è considerata una città amica delle bici. «Già da due anni Legambiente ci indica quale “città più ciclabile” in Italia. Ora intendiamo mettere in sicurezza tutti i percorsi ciclopedonali in cui, come si diceva, vi sono rischi. E rafforzare l’iniziativa dei “bicibus”: le carovane di biciclette con cui, sotto la responsabilità di un volontario adulto, si accompagnano i bambini a scuola la mattina».
Siete in contatto con altre città che seguono questa strada? «Ne stanno discutendo anche a Varese e abbiamo avuto degli scambi in merito. Per quanto la nostra e la loro siano amministrazioni di colore diverso, su questo punto ci si può trovare in sintonia».
MILANO, LA METROPOLI LI SCORAGGIAUna città invasa dall’automobile, che deve essere resa in condizioni più umane: questa è Milano, avverte Eugenio Galli, Presidente di Ciclobby, il gruppo della Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta) nel capoluogo lombardo. «Nel centro storico si continuano a costruire parcheggi sotterranei per la sosta temporanea: così si favorisce l’afflusso automobilistico. Per converso, malgrado dal 1998 viga l’obbligo di realizzare piste ciclabili su tutte le strade nuove o soggette a manutenzione straordinaria, spesso lo si evita con la scusa della “mancanza di sicurezza”: ma questa va creata, non nasce da sola. Nell’ampio e centrale corso Buenos Aires sono stati rifatti i marciapiedi, ma senza aggiungere piste o corsie ciclabili, né parcheggi per biciclette...».
E non ci sono neppure i pali a cui legare la bici...«Sarebbe sosta vietata, quindi sanzionabile. Certo, ci sono pochi parcheggi per le bici, e non adeguati; consentono infatti di legare solo la ruota, mentre per evitare i furti occorre fermare anche il telaio».
Come aumentare la sicurezza per le bici? «Intervenendo sulle intersezioni, dove si verificano molti incidenti. Bisogna mantenere la continuità delle piste ciclabili. A Milano si interrompono, sono come brani sconnessi tra loro, e questo genera situazioni di rischio. La possibilità di transitare in senso vietato nelle vie del centro è una delle condizioni per favorire la bicicletta, lo constatammo nel 2008, quando andammo con una delegazione Fiab a Strasburgo, dove da tempo era in vigore questa possibilità».
Milano può diventare amica delle biciclette? «Se si interviene su cinque filoni: sulla mobilità, riducendo la velocità massima a 30 km/h dove non vi siano strade ampie e sicure; sulla sosta, organizzando parcheggi ad hoc dove le biciclette possano essere lasciate in sicurezza; sull’intermodalità, stabilendo punti di scambio treno-bici, tram-bici e permettendo l’accesso delle bici sui trasporti pubblici fuori dagli orari di punta; sui servizi, diffondendo il bike sharing e mappe di ciclabilità, indicazioni stradali opportune; costruendo una cultura della sicurezza attraverso l’educazione di ciclisti e automobilisti al reciproco rispetto e tramite il buon mantenimento delle strade».
Questo vale anche per altre città? «Tutti i grandi nuclei urbani italiani mancano di strutture per la mobilità ciclabile. All’estero molti Paesi, dopo la crisi del petrolio del 1974, hanno cominciato a privilegiare la bicicletta: una persona in bicicletta significa spesso un’automobile in meno per la strada».