Una grande montagna sacra, ricca di santuari e luoghi di culto eretti nei millenni da diverse popolazioni, accanto ad altari, circoli di steli, menhir, sepolture, grandi disegni di pietre riconoscibili solo dal cielo, incisioni rupestri. Il tutto nel cuore del deserto in cui avvenne la fuga dei figli d’Israele dall’Egitto: il Negev. Tutto questo e molto altro è Har Karkom, in ebraico "Monte Zafferano" (ma non a caso in arabo Gebel Ideid, "Montagna delle celebrazioni" o "delle moltitudini"), il vasto altopiano che l’archeologo Emmanuel Anati - come spiega nel libro "La riscoperta del Monte Sinai", (ed. Messaggero Padova) - identifica con il monte Sinai. Un’ipotesi all’inizio aspramente osteggiata dal mondo accademico, oggi accolta da buona parte degli archeologi e dei biblisti come molto probabile. Una scoperta che, se confermata definitivamente, rivoluzionerà gran parte delle "conoscenze" ereditate dalla tradizione.
Dopo 30 anni di spedizioni ad Har Karkom, i riscontri archeologici sono davvero tanti...«In un’area di 200 chilometri quadrati che si riteneva totalmente priva di resti archeologici, abbiamo rilevato 1.300 siti e milioni di reperti che attestano una presenza massiccia dal Paleolitico in poi. Sull’altopiano sono moltissime le testimonianze di culti religiosi, e alle pendici centinaia di accampamenti attestano che molti uomini si fermarono ai piedi di quella montagna. Proprio come racconta l’Antico Testamento».
La Sacra Scrittura, tanto precisa nel nominare i luoghi, avrebbe potuto ignorare una simile realtà?«La topografia biblica menziona centinaia di siti anche piccoli in modo attendibile, se scrive che ci sono "70 palme e 12 pozzi" lo dice per indicare precisamente
quel luogo: non potrebbe assolutamente aver dimenticato una montagna che da millenni era un frequentatissimo santuario a cielo aperto. Il luogo fu sacro da quando l’homo sapiens ci mise piede (il più antico santuario risale a 40mila anni fa), ma tra il 4000 e il 2000 a.C., nell’antica età del Bronzo, per ben due millenni c’è una vera esplosione di sacralità: in altre parole, quando il popolo di Israele arriva qui e vi adora il Dio della Bibbia, si innesta in una tradizione che era già presente e molto più antica. E di questo la Bibbia non fa mistero: quando Mosè arriva a Madian, ad esempio, Ietro gli dice «vai a pascolare alla montagna di Dio», il che indica che era già considerata tale prima che ci arrivasse Mosè».
Chi e perché nega l’ipotesi HarKarkom/Monte Sinai?«All’inizio molti erano diffidenti a priori, prima ancora di leggere le pubblicazioni che man mano informavano sulle nuove scoperte. Ricordo un professore di Gerusalemme: "Per decenni ho insegnato che il monte di Mosè è a Gebel Mousa, presso il monastero di Santa Caterina, come posso cambiare idea alla mia età?". Che a Santa Caterina la prima traccia umana risalga all’epoca bizantina non gli importava... Ad opporsi è soprattutto la scuola dei minimalisti, che negano ogni credibilità al testo biblico e lo ritengono un insieme di miti, così pensano che cercare un vero Monte Sinai sia un castello di sabbia. Oggi però le cose sono molto cambiate. Tre anni fa un’
équipe di teologi di varie università cattoliche italiane ha voluto visitare Har Karkom con me: sono tornati indietro convinti di aver visto il vero Monte Sinai. In tutto il Negev, infatti, non esiste una sola montagna con una così rilevante evidenza archeologica, per non parlare della impressionante corrispondenza tra quanto la Bibbia narra e quanto abbiamo trovato ad Har Karkom».
Ad esempio?«I numerosi cumuli di pietre e le steli probabilmente eretti per commemorare patti o eventi, com’è scritto nel Pentateuco: "Giacobbe prese una pietra e la eresse come stele, poi disse ai suoi confratelli "raccogliete pietre e fatene un mucchio"... Questo cumulo sacro e questa stele siano testimoni davanti al Dio di Abramo". E poi c’è il fatto che i siti paleolitici trovati sull’altopiano mantengono un ottimo stato di conservazione nonostante l’alta frequentazione della zona nei periodi successivi, come se chi nell’età del Bronzo abitava le pendici si tenesse lontano dalla montagna; dice infatti il Libro dell’Esodo: "Guardatevi dal salire sul monte, chiunque toccherà il monte morirà". C’è poi una suggestiva valutazione etimologica: sulla montagna abbiamo scoperto il culto di Sin, antico dio della Luna, e Sin-ai è un genitivo, "Monte di Sin", un nome conservato fino a oggi, come molti altri citati dalla Bibbia. Notevoli anche le sintonie con antichi testi egizi».
Che cosa non convince gli scettici?«Le scoperte dimostrano che l’esodo avvenne 800 anni prima rispetto a quanto sostiene l’esegesi in voga da due secoli, quando i dati archeologici non erano noti. La tradizione, cioè, poneva l’esodo nel 1200, invece oggi sappiamo che avvenne tra il 2200 e il 2000: infatti nel 1200 ad Har Karkom è in corso uno iato, un periodo privo di frequentazioni umane, come d’altra parte nell’intera penisola del Sinai, (Santa Caterina compresa). I casi sono due: se l’esodo avvenne davvero nel XIII secolo, Har Karkom non è il monte di Mosè (ma allora l’intera zona non lo è!). Se invece l’identificazione di Har Karkom è giusta, l’esodo va anticipato di 800 anni».
E tale retrodatazione che cosa comporta da un punto di vista dell’esegesi biblica?«Fino a oggi l’ipotesi di un esodo nel XIII secolo non trovava fondamenti nell’archeologia e il racconto biblico non stava in piedi. Gli studiosi si chiedevano perché non esistesse un solo reperto, ma non trovavano risposta. Ora tutto va a posto: l’esodo è avvenuto quando Madianiti, Amalekiti, Edomiti, e le altre tribù che la Bibbia infatti nomina, frequentarono davvero Har Karkom. Ciò dimostra che Esodo, Deuteronomio e Numeri non sono mito, e la narrazione biblica va a innestarsi nella storia. Ora un immenso patrimonio di reperti, chiuso in casse nei magazzini in Israele, attende solo di essere studiato da antropologi, storici delle religioni, teologi, esegeti e archeologi, che finalmente vedono coincidere i loro dati senza più contraddizioni».