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Intervista. Anati: «50 anni tra i graffiti dei Camuni»

Lorenzo Rosoli venerdì 28 febbraio 2014
Un motivo d’orgoglio: «Partendo dal Centro camuno di studi preistorici, abbiamo creato una disciplina di ricerca dell’arte rupestre che prima non esisteva e che ora si è diffusa a livello mondiale». Un passo decisivo nel cammino della conoscenza: «Abbiamo scoperto che l’uomo di sessantamila anni fa aveva una religione, un culto dei morti, una credenza nell’aldilà, una visione filosofica profonda dell’esistenza.
 
La dimensione spirituale fa parte della natura umana. Dall’origine». Una nuova frontiera da raggiungere, esplorare, varcare: «La decodificazione dell’arte rupestre. L’arte non era pensata per abbellire pareti rocciose, ma per esprimere e trasmettere messaggi. Era scrittura prima della scrittura. Che gli uomini di diecimila anni fa sapevano leggere: e che noi, uomini del XXI secolo, dobbiamo reimparare a decifrare».
 
Un motivo di rammarico: «Abbiamo formato una generazione di ricercatori di nuovo stampo che sono leader in Cina e negli Stati Uniti, in Spagna e in India, in Messico e in Australia, Argentina, Francia, Portogallo, ma quasi nessuno è rimasto in Val Camonica». Un appello alla politica e all’opinione pubblica: «Se non ci sarà un forte impegno, un forte rilancio, la cultura italiana è destinata a morire. Fermiamo la fuga dei cervelli, la desertificazione delle intelligenze».
L’archeologo Emmanuel Anati fa il punto del cammino di questo mezzo secolo, da quando – era il 1964 – diede vita al Centro camuno di studi preistorici (Ccsp). Che cosa sono cinquant’anni, quando il tuo lavoro di ricerca abbraccia i millenni, mentre sposta e ridisegna i confini fra storia e preistoria? Eppure, ne sono accadute di cose nuove, in questi cinquant’anni. Per cominciare: «La Val Camonica, prima quasi del tutto sconosciuta, ora è nota nel mondo. Con benefici anche per il turismo», sottolinea Anati. Merito di quella generazione di studiosi che assieme all’archeologo fiorentino, e sui suoi passi, s’è gettata nell’avventura di restituire voce, pensiero, storia, alla folla di figure istoriate sui fianchi rocciosi della valle.
Pitoti, cioè “bambini tonti”, un po’ “grulli”: così la gente del posto era solita chiamare quei graffiti antropomorfi. In realtà: questa costellazione di oranti e di guerrieri, di spiriti e divinità, di animali reali e totemici, di oggetti quotidiani ma anche di simboli, ideogrammi, mappe, costituisce il principale sito europeo d’arte rupestre, con le sue 350mila immagini tracciate su duemila superfici fra l’Epipaleolitico e l’età moderna. Un tesoro «che nel 1979 venne riconosciuto dall’Unesco Patrimonio dell’umanità: la prima volta al mondo per l’arte rupestre, la prima in assoluto per l’Italia, dove il fatto destò scalpore e non venne capito – ricorda Anati –. Già allora ero consulente dell’Unesco e sapevo come si fa un dossier che deve passare il vaglio di esperti di settanta Paesi, come nella stessa occasione non riuscì a Roma...». Solo settant’anni prima, nel 1909, il geologo e alpinista bresciano Gualtiero Laeng segnalava al Touring club italiano i due “massi di Cemmo"” aprendo all’intelligenza della contemporaneità il “caso serio” dei graffiti camuni. La svolta arriverà con la “missione Anati”, preludio alla fondazione del Ccsp, poi dei parchi archeologici. «Una grande avventura», testimonia l’archeologo nato a Firenze nel 1930 da una famiglia ebrea, escluso dagli studi a causa delle leggi razziali, che di «grandi avventure» ne ha vissute tante, ad Har Karkom, nel deserto del Negev, in Israele, come in altri siti sparsi nel mondo.
«Partendo da zero, indebitandoci con le banche – cinquant’anni fa più munifiche di oggi –, coinvolgendo gli enti locali – che però fanno sempre più fatica a tener fede alle promesse – abbiamo creato, con il Ccsp di Capo di Ponte, la migliore biblioteca italiana del settore, l’archivio dell’arte rupestre, una casa editrice che ha pubblicato più di cento volumi, un’istituzione come i simposi internazionali a cadenza biennale, che hanno chiamato nella valle bresciana studiosi da centoventi Paesi», dice Anati, oggi presidente onorario del Centro. Che ora guarda all’Expo 2015 con un progetto che racconterà la “preistoria dell’alimentazione” utilizzando i graffiti camuni, ai quali applicare le tecnologie del progetto 3D-Pitoti – con la rielaborazione informatica di riprese a terra e di riprese aeree realizzate con droni.
«Abbiamo fatto conoscere la Val Camonica, abbiamo riportato alla luce la sua civiltà preistorica, abbiamo creato una nuova disciplina dell’arte rupestre, diffondendo nel mondo un certo tipo di cultura scientifica e umanistica italiana – prosegue Anati –. L’archeologia non è più il fine, ma lo strumento per conoscere l’uomo, la sua anima, le sue spinte intellettuali e spirituali. Troppi colleghi sono ancora fermi ad un’archeologia “descrittiva”: stanno lì a descrivere il pezzo di ceramica, e poi non sanno che farsene. Noi abbiamo dato all’archeologia una profondità di campo, una capacità analitica, una metodologia di ricerca davvero nuove: una rivolta e una svolta ancora incomprese, anche se oggi, finalmente, abbiamo la stima di altre discipline come la sociologia e la psicologia, che lavorano con noi usando i nostri risultati».Col cammino di questi cinquant’anni «abbiamo rivoluzionato il nostro concetto di uomo. Che è spirituale e intellettuale da quando è nato. La spiritualità non sorge con il monoteismo: nasce con l’uomo. Pitture e incisioni servivano a trasmettere messaggi. E scopriamo che una forma di scrittura era già praticata quarantamila anni fa. La nostra società – scandisce l’archeologo – tende a mettere in risalto le differenze tra i Paesi, le lingue, le culture. Non ci insegna cos’ha in comune l’umanità intera: non ci insegna a guardare allo spirito dell’uomo, alla sua sete, sempre inappagata, di conoscenza e di senso, alla nostra radice comune, a come tutti nasciamo da un’unica famiglia». Come sa, invece, chi sa ascoltare i pitoti.