Intervista. La musica «vera» degli America
La band sul palco dell’ultimo tour
«Non conta scrivere canzoni allegre o tristi, dure o melodiche, romantiche o realistiche: quello che fa la differenza, per restare nel tempo, è la verità di ciò che scegli di cantare. L’unico dovere di un artista è essere vero ». Così Gerry Beckley e Dewey Bunnell spiegano il successo infinito della loro band, gli America, nata a fine anni Sessanta curiosamente in Inghilterra (loro e il sodale Dan Peek erano figli di militari Usa di stanza in Europa) e ancor oggi attivi dopo 25 album e milioni di dischi venduti. Eppure troppi, forse ricordando degli America solo un folk color pastello, dimenticano quanta grande musica abbiano fatto questi signori: passando dalla prima hit A horse with no name del ’71 a Ventura highway, brano realizzato con Neil Young e oggi fra i più campionati, dai dischi prodotti col George Martin mentore dei Beatles ai tour in tutto il mondo, dalla ripartenza dopo l’addio di Peek nel ’77 con successi quali The bordersino agli ultimi riusciti lavori: in primis Here & nowin cui gli America hanno avuto accanto insospettabili loro fan della musica, da Ryan Adams ai My Morning Jacket a James Iha degli Smashing Pumpkins; poi Back pages, disco d’omaggio al canzoniere Usa del 2011, e gli inediti diLost & foundtre anni fa. Dopo una lunga attesa gli America tornano in tour in Italia, con una tre giorni a ottobre all’Auditorium Conciliazione di Roma il 13, al Teatro Auditorium Manzoni di Bologna il 14 e al Dal Verme di Milano il 15: e proprio mentre stanno preparando l’ennesimo tour mondiale che li riporterà anche da noi li raggiungiamo in California, dove alle soglie del cinquantennale di carriera continuano a rinverdire il sogno di «parlare al mondo col linguaggio universale della musica».
Cosa spinse tre studenti emigrati dagli Usa all’High School di Bushey, Londra, a scegliere per esprimersi proprio la musica e il far canzoni?
«È la musica che ha scelto noi. Gerry, pensi, aveva il pianoforte in casa e a tre anni iniziò a suonarlo, non l’avesse avuto chissà… Ma era forte in noi allora l’influenza di Beach Boys e Beatles, la voglia di percorrere la strada che loro avevano aperto».
In Back pages però avete omaggiato Paul Simon, Joni Mitchell, James Taylor, Bob Dylan: sono cambiati i vostri miti, tornando poi negli Stati Uniti?
«No, solo si sono affiancati questi nomi a quelli dei Fab Four e di Brian Wilson: tutti questi artisti, compreso Neil Young con cui abbiamo lavorato, hanno definito il nostro modo di pensare la musica».
Cosa vi ha insegnato il produttore dei Beatles George Martin, con voi per lp storici, Holiday o Harbor?
«Molte cose, su tutte il concetto di focalizzarci sulla musica e su come vogliamo svilupparla: abbiamo imparato a scegliere alcune strade accantonandone altre, a non mirare mai al facile o al comodo».
Nel vostro caso, pensando al brano A horse with no name, è vero che una canzone cambia la vita: avevate intuito le potenzialità del pezzo, scrivendolo?
«Avevamo molte speranze, pensavamo valesse, ma non immaginavamo un successo di quella portata: fu numero uno nel nostro Paese prima ancora che vi tornassimo, in pochi anni distrusse ogni record di vendite. Senz’altro ce l’ha cambiata molto, la vita».
È mai stato un peso, aver avuto successi del genere?
«Lo sarebbe stato se ci fossimo fermati: invece da subito abbiamo cercato di costruire un affresco con la nostra musica, andando oltre il singolo quadro».
Quali sono i pezzi cui siete oggi più legati?
«Crediamo che Sister golden hair e la stessa Ventura highway rappresentino al meglio il massimo delle nostre potenzialità di gruppo, nonché cosa significhi scrivere una bella canzone: se arrivi a unire liriche coinvolgenti e musica che prende, non conta la lingua. Chiunque è raggiunto dal tuo canto e può condividere con te l’energia del far musica».
Pensate sia un dovere trasmettere energia e serenità?
«Conta solo la verità: è quello l’unico dovere. Un musicista deve essere soltanto sincero e una buona canzone deve dire del mondo, contrasti compresi».
Forse però oggi il mondo è troppo cinico, per una musica coinvolgente come la vostra. Che ne pensate?
«Può essere: soprattutto è cambiato il fatto che per la nostra generazione la musica era tutto, ascolto e canto, apprendimento e sfogo, dava ispirazione per esprimersi e spunti per capire. Oggi la musica dà ancora tutto ciò, ma purtroppo vediamo che non è più al centro della vita dei giovani».
Cosa rimane in voi di Dan Peek, che vi ha lasciati nel ’77 ed è mancato sette anni fa?
«Molto. La sua musica da solista (d’ispirazione cristiana, nda) parla sempre per lui e dona molti valori alla gente. Nel ’77 non fu però duro ripartire senza Dan: cercava altro e voleva andare oltre il pop, e allora come noi lasciammo a lui il tempo per ripensarsi, lui ci donò la libertà di andare avanti sotto il nome di America con nuovi dischi».
Che ricordo avete del Sanremo ’90, in cui siete stati in gara con Io vorrei di Sandro Giacobbe?
«È stato meraviglioso, per anni ci ha permesso di avere riscontri importanti da voi anche se non conosciamo molto la vostra musica… ma rimedieremo!».
Che concerti dobbiamo aspettarci, qui, a ottobre?
«Tanti successi e molte cose particolari: un percorso spumeggiante. I live sono il modo migliore per far progredire la musica, ne teniamo un centinaio l’anno. In Italia forse registreremo un disco dal vivo, e stiamo pensando anche a un docufilm su di noi».
Ma qual è l’eredità musicale degli America?
«A giudicare dai colleghi che hanno voluto lavorare con noi in Here & nowè la capacità di comunicare oltre età e generi: e certo essere normali, anche imperfetti, ma saper parlare con la musica è il punto focale del nostro lavoro da fine anni ’60 ad oggi».