La simpatica nonagenaria Siiri e le sue amiche sono convinte, beate loro, che dietro la faccenda della demenza senile ci sia una specie di complotto. Farmaci somministrati a casaccio, trasferimenti arbitrari nel reparto d’isolamento, cartelle mediche che appaiono e scompaiono. Ma sarà proprio così?
Mistero a Villa del Lieto Tramonto di Minna Lindgren (traduzione di Irene Sorrentino, Sonzogno, pagine 284, euro 16,50) tende a prolungare l’incertezza, probabilmente in attesa dei prossimi volumi di questa piccola saga ambientata in una casa di riposo di Helsinki. Clima ottimistico anche se a tratti surreale, a fronte del quale lo statunitense Jonathan Miles, autore del romanzo
Scarti (traduzione di Assunta Martinese, minimum fax, pagine 580, euro 18,00), preferisce attenersi a un più severo principio di realtà. La casa di riposo c’è anche qui, solo che il professor Elwin Cross Senior soffre veramente di Alzheimer , con tutte le conseguenze e i paradossi del caso. L’esorbitante rendiconto della sua carta di credito (clonata da un truffatore) lo proietta su un ottovolante emotivo tra passato e presente, ma in compenso il rigoroso saggio sulla funzione del genocidio nella storia dell’umanità, al quale l’uomo sta lavorando con estrema lentezza, conserva una lucidità impressionante. Sono solo due esempi, scelti tra i più recenti, di una tendenza ormai evidente: rispetto a qualche anno fa, quando i libri e film che affrontavano il tema del decadimento mentale costituivano una rarità, oggi il racconto dell’Alzheimer e, più in generale, della demenza senile è sempre più frequente, sempre più circostanziato. Per una serie di motivi solo in parte intuitivi. Certo, si vive di più e quindi le patologie legate all’invecchiamento sono un’esperienza più diffusa, che spesso induce figli e parenti ad assumere l’onere della testimonianza. Ma è altrettanto vero che, almeno nell’ambito della finzione, si registra una spiccata preferenza per i casi di Alzheimer a insorgenza precoce, assai meno rilevanti sul versante statistico (sono però i più interessanti anche per la ricerca medica). Sarà perché, oltre a limitare drammaticamente l’autonomia del soggetto, la malattia rivela la fragilità della memoria, valore altrimenti considerato intoccabile? Per una società che assegna al dovere del ricordo un significato pressoché sacrale, del resto, la cancellazione del passato non può non assumere connotazioni catastrofiche. Il successo di un film come
Still Alice di Richard Glatzer, che ha meritato a Julianne Moore l’Oscar come migliore attrice protagonista, lo conferma con chiarezza: la protagonista è un’intellettuale poco più che cinquantenne, la cui esistenza è sconvolta da una diagnosi di Alzheimer precoce. A ben pensarci, la trama ha diversi punti di contatto con
Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati (2010), dove a essere vittima della smemoratezza era il giornalista Fabrizio Bentivoglio, amorevolmente assistito dalla moglie Francesca Neri. Il pubblico, in quell’occasione, fu restio ad apprezzare, come sottolinea a malincuore Michele Farina nel documentatissimo
Quando andiamo a casa? (Rizzoli, pagine 430, euro 13,00), senza dubbio il più completo fra i libri italiani sull’argomento. In parte reportage sul campo, in parte inchiesta scientifica, il lavoro di Farina ha un’origine del tutto privata. Morta nel 2004, sua madre Franca è stata a lungo malata di Alzheimer, in un periodo nnel quale la malattia era ancora poco conosciuta. Anzi, insiste Farina, in Italia continua a essere trascurata, se non addirittura evitata, al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei, primo fra tutti l’Olanda, dove l’opera di sensibilizzazione è costante e capillare. Da noi, invece, si fa fatica a trovare un personaggio famoso che si presti a fare da
testimonial, e, anche se le strutture modello non mancano, il peso della cura grava in modo considerevole sulle famiglie. C’è chi si ricorre a una badante, c’è chi assume direttamente il ruolo di
cherghiver, che poi sarebbe la variante lombarda dell’inglese
caregiver. Da buon cronista, Farina se la prende con gli episodi – a volte davvero desolanti – di malasantià e intreccia con leggerezza ricordi di famiglia e memorie letterarie. Evoca uno dei pochi classici conclamati sul tema, e cioè
La versione di Barney di Mordecai Richler (1997, da noi lo pubblicò Adelphi), con il protagonista che non ricorda più come si chiama l’affare per versare la minestra, ma è in grado di ricostruire alla perfezione i dettagli della sua burrascosa vita sentimentale. L’Alzheimer come tema letterario? Di sicuro si può dire che ne soffrono o ne hanno sofferto scrittori come Daniele Del Giudice – al quale Farina dedica pagine particolarmente belle – e Gabriel García Márquez, che nel capolavoro
Cent’anni di solitudine (1967) aveva in qualche modo anticipato gli esiti del morbo descrivendo l’epidemia di oblio e insonnia da cui è devastata la cittadina di Macondo. Un indizio prezioso si trova in un altro romanzo apparso da poco in Italia,
Non siamo più noi stessi dell’americano Matthew Thomas (traduzione Chiara Brovelli, Neri Pozza, pagine 736, euro 19,50). Ancora un Alzheimer precoce, le cui manifestazioni vengono ripercorse con impietosa accuratezza dal punto di vista della moglie del malato, uno stimato docente di scienze che all’improvviso cade nel panico alla sola idea di dover compilare il registro dei voti. Il racconto è lungo e minuzioso, ma l’illuminazione sta tutta nel titolo e nell’epigrafe che ne dichiara la provenienza. «Non siamo più noi stessi allorché la natura, oppressa, impone all’animo di soffrire col corpo» è una citazione dal
Re Lear di Shakesperare e la vicenda del monarca folle, che disereda la figlia prediletta e si consegna all’ipocrisia delle altre due, non manca di requisiti per essere riletta come un convincente referto diagnostico. Lear non è accecato dall’ira, ma ottenebrato dalla demenza senile, proprio come i personaggi di
Rughe, il toccante racconto a fumetti dello spagnolo Paco Roca, edito in Italia da Tunué (2007). Che lo si faccia per condividere con gli altri la propria sofferenza o per allestire un romanzo appassionante (almeno un altro andrà segnalato:
Io non ricordo di Stefan Merrill Block, pubblicato nel 2008 da Neri Pozza), dell’Alzheimer oggi si parla, ed senz’altro un bene. Come ogni malattia, anche questa costringe a interrogarsi e a trovare risposte. È quello che fa Cinzia Bellotti, autrice di un delicato
memoir sulla vicenda della madre (
Ti guardo e mi chiedo, New Press, pagine 140, euro 12,00). La conclusione consegnata all’ultima frase del libro può essere, in effetti, un buon punto di partenza: «Per tornare alla domanda iniziale, se io fossi nei tuoi panni, mamma, cosa vorrei, rispondo con una semplice parola: accettazione, vorrei essere accettata per quello che sono diventata».