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Arte e sacro. Creare un altare: l'infinito concreto

Raul Gabriel mercoledì 31 luglio 2019

L'intervento di John Pawson nell'abbazia di Pannonhalma, in Ungheria (Thaler Tamas - CC BY-SA 4.0,)

I - Essenza dell'altare

Inutilità di regole o capitolati - Priorità simbolica dell'altare che racchiude la complessità del tutto - Congiunzione possibile tra rivelazione e forma

Recentemente il tema dell’altare è tornato ad essere il protagonista del XVII Convegno liturgico internazionale del monastero di Bose, una delle sedi più autorevoli in cui si dibatte sui temi dell’architettura sacra in tutte le sue declinazioni. La centralità dell’altare è un tema che ritengo essenziale e in questi anni di approfondimento delle tematiche del sacro, a partire dal 2009, quando ho affrontato la prima perigliosa sfida nella risignificazione di una chiesa modernista nel centro di Perugia, me ne sono sempre più convinto.

Il tema dell’altare è estremamente coinvolgente perché in qualche modo investe, attraverso la forma, la relazione stessa che si ha col mistero. Porzione di un tutto ma al tempo stesso totalmente autonomo, ed essenza di quel tutto, l’altare chiede una connessione profonda con il significato più intimo e potente del fare il sacro. La sua prolificità si cela in questo rapporto. In assenza di questa connessione, il risultato parlerà di arredamento, stile, accademia, artigianato. Nulla che si avvicini al meraviglioso incidente della concretezza della rivelazione.

Quale sia il confine tra un soprammobile e un simbolo che è tramite dell’incontro col mistero nel visibile non è semplice dirlo. Certamente pensare un altare è una esperienza spirituale calata nel concreto. L’intuizione può provenire da varie sensibilità spirituali, purché intense. Personalmente sono convinto che sia molto difficile per chi non crede avere una immersione profonda nel suo significato, così peculiare, che si possa restituire a chi guarda in forma esperibile. Un altare non è un generico invito alla meditazione. È un fatto preciso che riguarda un evento preciso. Chiaramente questa non può essere una scusa per fare sconti qualitativi sulle intuizioni formali in un senso o nell’altro. Essere di fede cristiana non è in alcun modo, e lo constatiamo continuamente, garanzia di qualità, come non lo è essere atei, buddhisti, induisti o marxisti.

Trovo che fatte salve le belle riflessioni, ciò che manca molto spesso nell’affrontare il tema metodologico della realizzazione dell’altare è una forma di meditazione attiva che si compie attraverso la progressiva strutturazione formale. Poche esperienze sono coinvolgenti come il tema dell’altare. Almeno per me. Immaginare fuori dal tempo e dentro il tempo, fuori dal luogo e nel luogo, in solitudine e comunità, un elemento che al tempo stesso deve essere libero da influenze e dentro la storia, assomiglia molto a una esperienza mistica.

Le consuetudini tendono inesorabilmente a far dimenticare il significato originario di cose ed eventi. Le incrostazioni degli adattamenti, anche piccoli ma progressivi, gli inevitabili compromessi che regolano la relazione tra concetto e prassi, si cristallizzano intorno al fulcro fino a renderlo praticamente irraggiungibile. Questo è certamente il caso dell’altare. Ridotto spesso a una sintesi che, anche quando affronta il tema della sua centralità, non dà conto di una componente altrettanto fondamentale: la prolificità che come nucleo essenziale dell’edificio chiesa conserva in sé come uno scrigno, superiore a ogni altro simbolo, cui ci si può avvicinare solo con una profonda coscienza del mistero che ne è origine.

Avvicinarsi a pensare un altare significa certamente conoscere, essere preparati. Ma non è sufficiente. Il metodo di indagine conoscitivo razionale deve essere sostenuto da una dimensione meditativa e un entusiasmo sempre nuovo, quasi infantile, che caratterizza chi ama. Non saprei dire se la passione necessaria si può acquisire. È come dire che si può programmare di innamorarsi. Eppure è certo che solo gli occhi dell’amore permettono di scavare l’apparenza formale e le sue tematiche per far emergere la forma di un incontro possibile, ogni volta definitivo, ogni volta rimandato.

L’altare si caratterizza per due categorie di proprietà. Quelle interne all’elemento, che definire statiche sarebbe improprio. Interne non significa immobili, tutt’altro. E quelle esterne, riferite alla sua relazione dinamica con il tutto dell’architettura della chiesa che si possono dividere in due tensioni apparentemente opposte: una espansiva, centrifuga, e una attrattiva, centripeta, forse più simile alla nostra idea comune di forza di gravità.

Va specificato che queste divisioni sono esclusivamente funzionali a chiarire alcuni punti, poiché nella realtà, come in un sistema planetario, le forze interne degli elementi e quelle che ne regolano le relazioni, sono interdipendenti e sostanzialmente inscindibili. Vi è una peculiarità nel fare simboli rispetto alla progettazione dell’edificio e le sue pertinenze. Progettare una chiesa è certo una grande sfida, che ha dato e darà luogo a capolavori di grandezza assoluta. Eppure vi è una linea di demarcazione che separa il pensare gli spazi e le loro logiche dal tema dei simboli liturgici. Una attitudine differente, che deriva dalla necessità, per l’architettura, di confrontarsi con la funzione in maniera a volte anche troppo invadente.

Alcune eccezioni sono evidenti nella modernità come il convento di La Tourette di Le Corbusier. Ma generalmente la problematica dell’edificio diviene un campo troppo ampio e pieno di istanze pratiche per poter permettere una riflessione verticale. Le competenze si confondono e le aspirazioni alla meditazione, se ci sono, vengono diluite dai temi urbanistici, ambientali e pragmatici. Per i simboli la questione è diversa. Le priorità non sono funzionali. Date le dimensioni non vi sono particolari vincoli, né in termini di materiale né in termini formali. La meditazione può essere quasi pura. Ma richiede una altrettanto profonda dedizione verso il significato.

Per realizzare i simboli è necessario un artista. Un poeta. Un visionario. In grado di farsi prendere dal viaggio del significato profondo di ciò che realizza. Non è questione da poco. La taratura di un altare potente e significante non è nell’applicazione delle regole di un appalto, ma nella profondità della congiunzione possibile tra rivelazione e forma.

Realizzare un altare non è remunerativo come progettare una chiesa, non solo da un punto di vista economico ma anche da un punto di vista di ritorno di immagine. Perché un altare, se non si ama, è piccolo nelle dimensioni, economicamente meno incisivo, meno grossolanamente impattante. La prima cosa mirabile della costituzione stessa dell’altare è il ribaltare questa logica. Come simbolo della peculiarità del messaggio cristiano autentico è la perfetta incarnazione del piccolo che significa il tutto e che nel piccolo racchiude, riassume e significa tutto il resto. L’altare, anche nella sua logica estetica, è unità che racchiude la complessità del tutto. Tutto che non lo contiene, ma ne sostanzia una sorta di continuità carnale.

Per quanto piccolo, l’altare non può essere contenuto. Non può neanche essere considerato una sintesi. È la dimensione umana della concretezza dell’infinito. Concentra per espandere. Una esperienza interessante è quella del recente altare della basilica di Saint-Denis, opera di Vladimir Zbynovsky. Al di là delle scelte stilistiche ciò che trasmette è una riflessione che va al di là della realizzazione di un manufatto. Tutto l’impianto trasmette una forte tensione trascendente, il vetro e la pietra (condensazione di storia e spirito dell’edificio) sono disgiunti e profondamente uniti, e danno conto anche di una idea sulla luce che viene riletta anche sulla superficie della pietra, contigua a una corposa mensa di vetro. Su un piano differente la sacralità di John Pawson che nell’altare per l’abbazia benedettina di Pannonhalma, in Ungheria, punta su una essenzialità formale molto rischiosa risolta però in maniera potente per la scelta dei materiali, la collocazione rispetto agli altri elementi liturgici, che riaccorda tutte le linee di forza dell’edificio, e un bema che sembra ribaltare i rapporti tra mensa e ara.

Pensare un altare è come concepire il centro dell’universo. Non di un universo generico e teorico. Un universo fatto di territorio, comunità, edificio, architettura, struttura formale che devono essere setacciati e partorire non la didascalia del luogo ma una compiutezza formale fatta di forze che si compenetrano e bilanciano.

II - Un centro di forze cosmiche

Fulcro di spinte centripete ed espansive - Forma ed energia - Il respiro dinamico della chiesa

L’altare è statico e dinamico al tempo stesso. Come un vero e proprio fulcro gravitazionale genera spinte che hanno forti analogie con quelle di un planetario. Come un diapason gravitazionale tara tutta l’armonia e il bilanciamento di dinamica e statica dell’architettura nel luogo sacro. Al tempo stesso la struttura dell’altare non può mancare di una dinamica interna dovuta ai suoi materiali e alle sue forme. L’altare può essere pensato come un sole, relativamente fisso rispetto al sistema dei pianeti ma attraversato da esplosioni continue, un ribollire di energia in costante divenire.

Non si dà un altare statico. Ma serve un altare fisso. Dilemma estremamente prolifico e mai completamente indagato. Il cubo rappresenta certamente una forma cui tendere. Ma il discorso non è così elementare. Il cubo come viene troppo spesso banalmente interpretato, inarticolato, è una ottima semplificazione per chi non ha la passione per il mistero, e trova una soluzione tutto sommato accettabile quanto indefinita. Non può bastare. Un altare è tutto tranne che il simbolo di un compromesso accettabile.

Ho visto recentemente cubi (o parallelepipedi tendenti al cubo) in luoghi come la cattedrale di Orléans, che anche se auspicabilmente transitori, sono il segno di una semplificazione eccessiva. Il cubo interpretato in questo modo, anche se fosse impreziosito da materiali rari, non è la scelta formale che può soddisfare la complessità, la prolificità, la vita dell’elemento essenziale della rivelazione cristiana. A parte i precedenti babilonesi, il cubo puro assomiglia al monolite di Stanley Kubrick, inidentificabile monade misteriosa, divinità senza volto e disumana, distante, affascinante e mortale. In definitiva, negazione del messaggio cristiano.

Vedo l’altare come un magma composito e vivo al tempo stesso, dinamico e solido, attraversato da forze incontenibili eppure contenute, dentro un luogo misterioso che è l’incarnazione del mistero incontrabile ed esperibile che non è il grande monolite di 2001: Odissea nello spazio, molto simile a una lapide mortuaria, la cui geniale intuizione, forse non cosciente, è il destino della morte infinita di un universo senza carne.

Lo sforzo creativo per l’altare vale quello dell’intera chiesa. Dar conto di complessità e vitalità all’interno di una unità solida, composita, articolata, complessa ed essenziale. L’altare come tutta la chiesa deve essere vibrante in forma e materia. Il linguaggio della fisica, usato con una certa libertà, mi sembra efficace nel rendere tangibile la architettura delle tensioni regolate da un altare. Vi è una forza centrifuga che emana dall’altare. L’altare è scaturigine. Il mistero da cui tutto deriva. Pur rimanendo fulcro stabile.

Le geometrie disegnate dal campo di forza espansivo dell’altare non hanno necessariamente una unica forma. A raggiera, sinusoide, ondulate, circolari, non è fondamentale. La topografia che caratterizza lo spazio dipende dalla estetica individuata. Ciò che deve essere percepibile è il legame per cui tutto ciò che è nella chiesa si comprende come espansione dell’altare. Non emanazione di una entità impalpabile ma concretezza che proviene dalla concretezza. Simboli che sono come una carne estesa dello stesso corpo, con una matrice comune individuabile, percepibile.

L'espansione cui mi riferisco non è una fuga verso un punto indeterminato. La spinta centrifuga rimane comunque aggregata. Tutto l’impianto della chiesa dovrebbe procedere dall’altare sia come struttura che come posizione. Mantenendo al tempo stesso un nesso di qualche tipo con la sua origine, riconoscibile ma non necessariamente evidente. Un ordito delle linee e delle strutture, una continuità, complementarietà di materia, concetto, che preservi la relazione nella espansione.

Quando anni fa ho affrontato il tema della risignificazione di Santa Maria di Colle – architettura di origine agnostica ma, non mi stancherò di dirlo, geniale in certe intuizioni – mi sono trovato di fronte a un impianto progettuale che trasmetteva un forte senso dinamico: proiettato, però, verso l’esterno. Dal presbiterio partiva un moto centrifugo senza ritorno. Una delle sfide principali è stata ripristinare il presbiterio come centro gravitazionale della struttura. Per fare questo mi sono servito di ogni strumento disponibile, dalle gradazioni cromatiche delle pareti, alle geometrie del pavimento, dalla forma della bussola a quella dei gradini del presbiterio, per finire con quello che doveva rappresentare l’incipit: l’altare.

Comunque si proceda è fondamentale trovare un equilibrio tra percezione e assenza di didascalia. San Giovanni Crisostomo aveva avuto la intuizione chiara della dimensione espansiva di un altare. In una sua catechesi recita: «Mosè levava le mani al cielo facendone scendere la manna, pane degli angeli. Il nostro Mosè, Cristo, leva le mani al cielo e ci procura un cibo eterno. Il primo percosse la pietra, facendone scaturire torrenti d’acqua. Questi tocca la mensa, percuote la mistica tavola e fa sgorgare le fonti dello Spirito. Ecco il motivo per il quale la mensa è posta al centro, come una sorgente, perché i greggi accorrano da tutte le parti ad essa e si dissetino alle sue acque salutari». Non fuga ma espansione, espansione all’assemblea ma anche espansione delle forme in cui il corpo del mistero si manifesta e si rende incontrabile in omaggio alla meravigliosa varietà del giardino delle percezioni che dovrebbe essere una chiesa.

La spinta centrifuga dell’altare deve essere bilanciata da una sua energia attrattiva, come una forza gravitazionale simbolica. In fisica, la forza attrattiva di una massa è funzione anche della sua densità. Più è densa e più forza gravitazionale possiede. La densità di un altare non proviene ovviamente dalla massa, quanto dalle torsioni e forze della sua struttura formale. In altre parole dagli avvenimenti che accadono al suo interno. L’equivalente della capacità magnetica dell’altare è la sua tensione intrinseca.

Vi sono casi interessanti. Se si prende l’altare (recentemente sostituito) di Tours ad esempio, dove forse una obiezione potrebbe essere la consistenza della solidità formale, parzialmente risolta dalla geometria della mensa che abbraccia lo spazio, certamente si percepisce lo sforzo di trasmettere la tensione dinamica e aggregante dell’altare.

In un mio recente progetto ho affrontato il tema del moto e della tensione, asimmetrica e simmetrica al tempo stesso dove la connessione tra mensa e ara diventa contiguità dialogante generando una unità che deriva di fatto da tre elementi. In quel caso la fiamma che ricompone l’ara e genera la mensa deriva da una geometria a pavimento caratterizzata da un moto costante e leggibile, a seconda dell’osservatore, come una convergenza verso l’altare o una sua emanazione. Tutto il moto della chiesa è verso l’altare e riparte dall’altare in una circolarità perenne.

L’altare si può immaginare come le moderne gigantesche sfere che stabilizzano la struttura dei grattacieli moderni. Si chiamano tuned mass damper e controbilanciano le spinte dei venti e le scosse dei terremoti. Grazie a pistoni idraulici, si muovono in direzione opposta al grattacielo quando oscilla sottoposto alle sollecitazioni ambientali. Il paragone vale anche in termini dimensionali. Queste bilance sono molto più piccole delle strutture che riequilibrano. Eppure ne sono il cuore. La potenza dell’altare sta nel tarare tutta la struttura sta nelle sue tensioni formali e materiali, la sua collocazione e le convergenze cui viene sottoposto.

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