Intervista. Josè Altafini, 40 anni per gamba
Josè Altafini con la maglia della Juventus
Caro Josè, antico leone, sono ottant’anni. «Scrivi, per favore, quaranta per gamba: suona meglio!». E giù una risata. Come sempre. Perché il calcio e la vita per lui, José Altafini, mondiale con il Brasile nel 1958, campione nel Palmeiras, nel Milan, nel Napoli e nella Juventus, anche nel Chiasso in Svizzera, sono un’allegria, soprattutto nei momenti più difficili, più duri. C’è sempre una nuova alba, un giorno che ricomincia, un lampo di sole, un sorriso improvviso.
Ottant’anni, ma il cuore è quello di un ragazzino. Ci conosciamo da una vita, ha lavorato come me in televisione per tanti anni, un fuoriclasse pure con il microfono in mano, con il suo “golaço”, con il suo immaginario “manuale del calcio” dove potevi trovare a “una certa pagina” quella rete così strepitosa, quell’assist così sublime, quella punizione così dritta all’incrocio. Non solo: è stato il mio primo idolo. Da bambino, mio padre, a San Paolo, mi portava a vedere il Palmeiras, che un tempo si chiamava “Palestra Italia” e l’asso di quella squadra, maglia verde con una P bianca, era lui José, soprannominato “Mazzola” perché assomigliava, straordinariamente, a capitan Valentino, uno degli Eroi di Superga.
Spesso, quando facciamo qualche presentazione insieme, in ogni anfratto d’Italia, esce fuori con questa storia: «Io mi ricordo di te Darwin e del tuo papà, quando uscivo dal campo vi salutavo sempre. Ma voi, niente: eravate, ogni volta, distratti. E io ci restavo così male, che non puoi nemmeno immaginare...». E ancora una risata. Come fai a non volergli bene? Lui che quando arrivò a Torino, una Torino che era la Fabbrica, la Fiat, dove si andava a dormire presto perché bisognava alzarsi presto, e i ristoranti chiudevano al massimo alle ventidue, esclamò: «Qui per divertirmi devo raccontarmi le barzellette da solo!».
Ma Torino, fino a un anno fa, è stata la sua culla, mentre Piracicaba, dove è nato, rappresenta Itaca; ora vive ad Alessandria, con la sua Annamaria, si occupa di campi sintetici, segue il calcio senza le emozioni di un tempo. Quasi distrattamente. Nel pallone ha avuto un maestro: «Zizinho. Un centrocampista dal talento lucente. Partecipò allo sfortunato mondiale del ’50 in Brasile, ma era un fenomeno in tutto e per tutto. Il mio beniamino. E anche quello di Pelé. Si è messo in evidenza nel Bangù, per poi passare a San Paolo. Quando è a fine carriera, e io un diciottenne pieno di speranze e di sogni, lo affronto in un Palmeiras- San Paolo. Immagina il mio stupore, la mia meraviglia... avevo davanti l’immenso Zizinho! Sto per andare a rete e lui mi ferma con un fallo. Mi prende per la mano, mi aiuta a sollevar- mi da terra e mi sussurra: “Scusami garoto, ragazzo, ma non potevo fare altrimenti. Scusami davvero”. Per me, quello, fu un insegnamento di vita. Una lezione che non avrei mai scordato. Quando giocavo per divertimento allo Sporting, il Circolo della Stampa di Torino, la sede estiva, appena sbagliavo un passaggio chiedevo sempre scusa. I ragazzi si stupivano: Altafini, ci chiede scusa? Io mi fermavo e raccontavo loro di Zizinho... Ecco: bisogna sempre essere umili».
Gli chiediamo di Cristiano Ronaldo alla Juventus. E qui José si scatena. «Ascoltami bene, prendi appunti. Nel football esistono due categorie di giocatori: i Forzuti e i Tecnici. Ronaldo fa parte della prima, come ad esempio Lukaku, Batistuta ed Eusebio. Gente che fa la differenza con la forza, e in questo Cristiano è il più bravo di tutti. Campioni come Messi, che io stimo all’infinito, Maradona, Pelé, Roberto Baggio e Rivera risolvono una partita, una situazione, escono da un momento di difficoltà con la tecnica, con la fantasia, con l’invenzione pura. Io prediligo questi giocatori. Ronaldo farà bene: bisogna vedere, però, quanto tempo impiegherà ad adattarsi alla nuova realtà e via dicendo... La Juve resta favorita per lo scudetto, ma occhio all’Inter. Potrebbe fare la grande sorpresa». José, tu eri un Forzuto o un Tecnico? «Più Tecnico che Forzuto!».
Importante è non parlargli di Neymar... «Per carità! Una delusione enorme. Pensava più ai capelli che a giocare. E poi tutte quelle sceneggiate. Dovrebbe andare a lezione da Messi. Forse è troppo tardi, non pensi?».
Altafini, leggiamo nella Enciclopedia da Seleçao, curata da Ivan Soter per la Opera Nostra Editora, esordì con la camiseta della Seleçao il 16 giugno 1957, contro il Portogallo, allo stadio Pacaembu di San Paolo, sostituendo Del Vecchio del Santos e realizzando subito un gol, su un passaggio impeccabile di Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’ala destra che portò il poeta Carlos Drummond de Andrade a scrivere: «Fu un povero e semplice mortale che aiutò un Paese intero a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c’è un altro Garrincha disponibile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno».
Insomma, “Mazzola” fu un predestinato, uno, fin dalla prima volta, chiamato a fare del gol la propria liberazione, il proprio canto libero, la propria felicità. Vestì anche la maglia azzurra, come oriundo, ai mondiali in Cile del 1962, vinti dal Brasile, e con l’Italia uscita subito di scena dopo la rissa con i padroni di casa. È sempre stato libero, sincero, privo di rancori, senza maschere. Un amico, per me, fraterno. Parabéns, garoto! Auguri, ragazzo!