Siena. L'«Allegoria del Buon Governo», un manifesto visivo per il bene comune
La “Allegoria del Buon Governo”, a Siena, con i ponteggi allestiti per il restauro. Fino al 31 gennaio è possibile salire sui ponteggi con apposite visite guidate
«Questa santa virtù, là dove regge, / induce ad unità li animi molti, / e questi, a cciò ricolti, / un Ben Comun per lor signor si fanno». Sono i versi che aprono la Canzone del Buon Governo, vergata in minuscola gotica lungo la banda che corre sotto gli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove, nel Palazzo pubblico di Siena. Una lunghissima, dantesca didascalia per le allegorie note come del Buon Governo e del Cattivo Governo, forse tra gli affreschi secolari più celebri di tutta la storia dell’arte italiana. Il vegliardo, la città che ferve di attività e di danze, la campagna ben regolata: sono immagini che hanno assunto quasi una vita propria, popolando molte copertine di libri e di manuali scolastici. Sono anche affreschi ampiamente studiati, ma è una prospettiva complessa e completa quella adottata da Gabriella Piccinni, docente emerita di Storia Medievale all’Università di Siena, in Operazione Buon Governo (Einaudi, pagine XII+324, euro 55,00).
Come recita il sottotitolo, il capolavoro di Lorenzetti, datato 1338, appare come “Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento”. Nessun dubbio, ovviamente, che fosse una pittura politica (e nemmeno unica nel panorama dell’Italia del XIV secolo). Ma lo sviluppo monumentale e l’aderenza al clima storico ne fanno un testo unico. Da una parte nella Sala dei Nove c’è il Bene Comune, o solo Comune, come lo chiama la Canzone, termine che troppo spesso dimentichiamo essere la traduzione di res publica. A lei si oppone la Tirrania, priva di giustizia e libertà. Non passa inosservato che il primo ha la forma di un padreterno e la seconda di un demonio, o forse di un Anticristo – un tiranno appare sempre sotto la forma di salvatore. Ma sono figure polisemantiche: «il Vecchio è Siena – scrive Piccinni –, è Siena antica, è città della Vergine, è Comune ed è signore della città, è Stato-città, è tutore degli statuti, è depositario del denaro di tutti».
È specchio della teoria ma soprattutto della realtà politica dell’Italia medievale, dove vanno tumultuosamente crescendo le societates, i gruppi che si riconoscono su base professionale, residenziale o militare e che si consolidano sotto la bandiera del Popolo, arrivando a sostituire al potere l’aristocrazia consolare-podestarile. (Quando parliamo di nascita della democrazia nell’Atene del V secolo a.C. dimentichiamo che probabilmente radici più feconde e dirette stanno nella repubblica romana – ai piedi del Bene Comune c’è la lupa capitolina – e nei liberi comuni medievali). Ed è la fotografia delle ambizioni di un mondo inconsapevole di essere alle soglie della notte: solo dieci anni dopo la peste nera avrebbe travolto Siena, che non si sarebbe più rialzata, falciando anche Ambrogio Lorenzetti e tutta la sua famiglia.
Nel 1338 la parabola non sembra manifestare cedimenti (sono gli anni persino tracotanti del Duomo nuovo). Eppure le fonti dell’epoca registrano già i segni di una crisi incipiente: una formidabile fortuna finanziaria, scollata da un’economia reale, è colpita da tempeste internazionali; la città è alle prese con i risultati di una politica di debito pubblico che ha finito per travolgere i tassi di interesse, colpendo le fasce più deboli e i consumi; violenze e congiure bagnano di sangue lo spazio pubblico del Campo.
Il governo “popolare” dei Nove deve ricorrere a una riorganizzazione dell’intero sistema economico, deviando in patria i fondi investiti all’estero, e mette mano a una nuova normazione, che confluisce nel cosiddetto “Statuto del Buongoverno”: «A Siena fu in questo modo, pur nel sovvertimento dell’economia e nella sua palese riconversione a scala locale e forse proprio per questo, che si assistette a un aumento dei denari da impegnare nelle opere artistiche, nelle stupende e possenti architetture pubbliche e nelle grandi opere di urbanizzazione, regalandole quella bella forma che s’intese poi mantenere nel tempo e alla quale non mancò, probabilmente, una qualche forma di ampio consenso di popolo». Questi dipinti dunque configurano in termini visivamente espliciti i princìpi dei Popolari, tra programma di governo, riferimenti ideali e strumento di consenso. La bellezza per sentirsi forti, per non avere paura.
Se dunque gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel tempo si sono staccati dalla storia per assumere nel corso del tempo il valore di un messaggio universale, una allegoria che tracima nel mito e in quanto tale variamente interpretato, Piccinni si preoccupa di riportarli, in modo estremamente dettagliato, nell’alveo del contesto. «Quello di additare la “modernità” di una storia come unico modo per riconoscerle valore è un nostro equivoco di contemporanei. È vero che il Buon Governo offre una bussola a chi guarda nel momento in cui fissa e trasmette valori alti ai quali le generazioni potranno, se vogliono, rimanere fedeli ma, come in altri casi simili, una corretta chiave di lettura per intenderne davvero “l’attualità” non sta nel ricercare i motivi di una attualizzazione che può essere malintesa, ma nel cogliere fino a che punto l’artista e i suoi consulenti interpretassero il loro tempo».