Pedagogia. Alle elementari di Salò, primi aneliti di libertà
Quadro vivente scolastico a Matera: un bambino rappresenta Mussolini, uno il re, uno l'Italia...
Nell’arroventato clima storico di una guerra ormai perduta, in un contesto segnato dall’occupazione tedesca, dalle deportazioni, dai bombardamenti, dalla violenza efferata, dalla fame e dalla povertà, alla nascita della Repubblica sociale italiana, nell’autunno del 1943, si pose il problema di come far risorgere la scuola elementare, crollata, con tutto il sistema, dopo gli eventi dell’estate precedente, dal 25 luglio in poi. Ad affrontare questo tema, nel primo studio organico e originale, è la storica della pedagogia Daria Gabusi, autrice del denso saggio I bambini di Salò (Scholé, 640 pagine, 37 euro), che rappresenta anche il tentativo di scrivere una narrazione 'sociale' del primo ciclo dell’istruzione in quel periodo, ricorrendo ai documenti del vissuto quotidiano di alunni e insegnanti, come agli archivi scolastici locali.
Gabusi comincia con lo spiegare che la rinata scuola della Rsi mussoliniana portò i tratti distintivi del suo artefice, il ministro dell’Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini. Questi, accademico prestato alla politica, accolse l’impari sfida di far ripartire le elementari, secondo lo spirito con cui aveva accettato l’incarico ministeriale: ossia, ricostituire un minimo di continuità dello Stato, ma in un contesto del tutto diverso da quello del ventennale regime, perché aperto, almeno potenzialmente, all’inclusione di inediti elementi di libertà e di partecipazione nella vita del tessuto sociale. Biggini, infatti, era un esponente di spicco di quel fascismo moderato che mirava a sanare e a ricucire quelle profonde ferite che avevano dilaniato il corpo della nazione, puntando a una strategia della riconciliazione e della pacificazione interna, in netta antitesi con l’intransigenza del segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, che invece perseguì una militarizzazione dell’intera società approfondendo il fossato della guerra civile.
L’opera di Biggini fu innanzitutto mossa da una preoccupazione sociale: quella di sottrarre i bambini alla strada, per riportarli nelle aule. Ne sortirono due bienni scolastici, tra i più brevi della storia unitaria: il 1943-44 e il 194445. Il ministro di Salò inserì il suo nuovo, e sperimentale, ciclo elementare, in un quadro disastrato, dove mancava di tutto: dagli edifici dove ospitare le lezioni, alla carta per poter stampare il libro unico di Stato, che, proprio per quella situazione di provvisorietà e di penuria, finì per scomparire: il che favorì, con l’adozione di testi prodotti sul mercato, l’ingresso dei primi elementi di pluralismo in quella tradizione monolitica che era stata la scuola di regime fino al 25 luglio 1943. Ma Biggini fece anche molto altro, per sbarrare il passo a una nuova 'politicizzazione' delle elementari: confinò l’Opera nazionale balilla, risorta sulle ceneri della Gioventù italiana del littorio (Gil), alle pure funzioni assistenziali, nel garantire il servizio di refezione nei plessi. Inoltre, preservò la vita della scuola da una fascistizzazione imposta attraverso i programmi, per privilegiare la rinnovata missione educativa, civile e morale, affidata agli insegnanti.
In questo senso, Gabusi definisce «patriottismo scolastico » quello delle elementari di Salò, che segnarono un primo indicatore di marcia verso l’autonomia della funzione docente, da adattarsi al singolo e specifico ambiente in cui veniva a collocarsi. Le circolari del ministro evitavano accuratamente riferimenti diretti alla politica fascista, e insistevano sulla necessità di costruire, nelle più giovani menti, un terreno adatto all’attecchimento di quegli aneliti di concordia nazionale che sarebbero stati fondamentali nel clima del dopoguerra. Forse sorprende che, addirittura, in una direttiva del 20 novembre 1944, Biggini indicasse, tra i compiti primari dell’educatore, la promozione dello spirito di libertà: «una libertà che nasce dai sacrifici dell’ora attuale e che trova il suo fondamento nella responsabilità di ciascuno di fronte a Dio, di fronte a se stesso, di fronte agli uomini». A questo processo di 'spoliticizzazione' della scuola, corrispondeva un innalzamento della responsabilità della funzione docente. Se ne ritrova riscontro nei registri di classe, dove gli insegnanti, molti dei quali cattolici, recepiscono gli orientamenti ministeriali. Ne è un esempio illuminante il brano con cui la maestra Ambrogina Volonté di Cirimido, in provincia di Como, il 18 settembre 1944, inaugura il registro del nuovo anno: «Trenta fanciulli sono tornati a me per attingere nuova luce, per acquistare maggior consapevolezza di sé, del mondo. Chiedo a Dio l’aiuto per non tradire la loro fiducia, per compiere appieno il mio dovere. La maggioranza degli alunni mi conosce e sa che esigo bontà, diligenza, pulizia, non voglio però una scuola rigida, fredda, senz’anima. Però fin dal primo giorno chiedo a loro collaborazione attiva basata su principi d’ordine senza i quali non sarebbe possibile un proficuo insegnamento.
La coscienza del grave momento che la Patria attraversa è presente nelle loro parole e nei loro silenzi. Essi vivono la vita nella sua cruda realtà: ascoltano trasmissioni radiofoniche, odono i discorsi degli adulti, vedono i giornali, sanno le difficoltà nuove, le nuove rinunce, il nuovo sacrificio, aspettano la mia parola che dia ali al loro spirito». Sul Duce, sul fascismo, nemmeno una parola. Un silenzio assordante come un rombo di tuono. In compenso, la scuola elementare del piccolo paese di Cirimido oggi è intitolata alla grandissima, e mai dimenticata, maestra Volonté.