Luoghi dell’Infinito. Cànopi: «Alla sofferenza si addice il silenzio»
Anna Maria Cànopi
Sul nuovo Luoghi dell’Infinito il tempo del patire e il tempo della grazia
Si intitola “Il dolore e la grazia” il numero monografico di “Luoghi dell’Infinito” di novembre (255) in edicola con “Avvenire” martedì prossimo. La sofferenza è intrinseca alla condizione umana, e suscita domande a cui la ragione non sa dare risposta. La speranza, anche quando piccola, anche quando sembra un’illusione, è una luce che non si spegne. Nel numero, da cui anticipiamo qui una parte del testo inedito di madre Anna Maria Cànopi, si segnalano gli editoriali di Francesco Ielpo, frate minore e Commissario di Terra Santa, e del poeta Guido Oldani, e i contributi di Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del Tribunale rabbinico dell’Italia Settentrionale, Ermes Ronchi, Franco Cardini, la storica dell’arte Maria Milvia Morciano, Massimo Lippi, Roberto Mussapi, Giovanni Cesare Pagazzi, la carmelitana Maria Cristiana Dobner, padre Leonardo Sapienza, Giacomo Poretti. Chiudono il numero le rubriche di Mario Botta, Maria Gloria Riva, Andrea Milanesi, Silvano Petrosino, Paolo Benanti, Maria Emmanuel Corradini, Antonia Arslan.
Particolare dal “Sacrificio di Isacco” di Caravaggio. Firenze, Gallerie degli Uffizi - Scala
«Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). E vi entrasse non da solo, ma con i suoi “fratelli” (cfr Eb 2,11ss). Bisognava che Gesù soffrisse, era necessario. Egli lo sapeva; anzi, molto più che saperlo, aveva offerto se stesso volontariamente, per amore. Eppure, lui stesso nell’agonia gronda sangue e sulla Croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Perché? È una domanda che affiora sulle labbra umane dalla più tenera infanzia. È la domanda stupita del bambino che si apre alla vita, è la domanda del giovane che ne cerca il senso, ma è anche la domanda pensosa dell’adulto davanti ai problemi della vita, ed è soprattutto il grido dei cuori angosciati, turbati di fronte alle grandi sofferenze, alle tragedie della storia o alle catastrofi naturali; è la domanda del credente quando la luce della fede sembra soffocata dalle tenebre di una notte oscura e senza stelle. È – osiamo dire – il gemito dello Spirito in noi, perché questa domanda attraversa l’intera storia della salvezza e, al di là di ogni sentimento e pensiero, non ferma il cammino dell’uomo, ma lo spinge ad andare oltre: oltre l’evidenza dei fatti, oltre i brucianti fallimenti, oltre la pretesa del proprio sapere, oltre gli ostacoli: oltre, con umiltà e coraggio, fino ad una totale consegna di sé al Mistero, a Dio. Perché?
È la domanda che dà dignità all’essere umano e fa di lui un profeta, una sentinella nella notte del mondo: fa di lui l’uomo per gli altri, che non teme di rivolgere a Dio la sua domanda angosciosa, sapendo che è la domanda di tutti, una domanda che attende risposta, e una risposta non vana. «Fino a quando, Signore, – grida il profeta Abacuc – implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? [...] Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità, perché, vedendo i malvagi, taci mentre l’empio ingoia il giusto?» (Ab 1,2–3.13). Il profeta, da vero intercessore, “provoca” Dio, lo chiama in causa, gli pone davanti la realtà dei fatti, e, non nascondendo il suo sconcerto, gli chiede di “giustificare” il suo inconcepibile modo di agire, pronto ad affrontare a viso aperto il “suo” Dio. Il Signore risponde al suo profeta, ma non dà una risposta facile, che appiani la via e tolga gli ostacoli: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». (Ab 2,2–4). Il Signore chiede di saper attendere nella pazienza, di resistere nella prova per ricevere – a suo tempo – grazia e consolazione. Egli dice al profeta che la prova – la sofferenza, il dolore – non è per la morte, ma per la vita: una vita in pienezza, stabilita per sempre nell’amore. Ho letto recentemente un libro molto interessante – Quando finirà la sofferenza?– che raccoglie lettere e poesie scritte da Ilse Weber, un’ebrea nata in Cecoslovacchia e morta ad Auschwitz. Questa giovane, donna sposata con due bambini, si trova a vivere la tragedia della Shoa. Già nel 1938 scriveva a un’amica: «Fino ad oggi ho creduto in Dio, ma se non darà in breve tempo la dimostrazione della sua esistenza, non potrò più crederci. Questa persecuzione degli Ebrei è disumana [...] Siamo tutti tanto disperati». Poi, durante la detenzione il suo animo sensibilissimo espresse i sentimenti di tutto il suo popolo atrocemente provato. Scelgo alcuni versi tratti dalle poesie ritrovate in un capanno del lager: «Non abbiamo nessuna patria, / non troviamo pace da nessuna parte… / Disprezzati ed evitati, / indifesi, soffriamo in silenzio, / in nessun porto ci attende la pace / Perché, o Dio, perché? / Porgici, o cielo, la tua mano benevola…». Il grido di Ilse Weber fu soffocato – così sembra allo sguardo umano – nel forno crematorio insieme a quello di uno dei suoi bambini. Ma, per fede, noi crediamo che quel grido fu un tutt’uno con il grido di Cristo Crocifisso e così giunse al cuore del Padre. Quando finirà la sofferenza? Perché tanto soffrire? A queste domande molte altre se ne potrebbero aggiungere. Ho ancora vivo nel ricordo uno spettacolo che una singolare compagnia teatrale del Piccolo Cottolengo di Torino, l’Associazione Outsider, composta di sordomuti, ciechi e portatori di altri handicap psicofisici, ha voluto offrire alla nostra comunità monastica, in segno di comunione. In un angolo del chiostro rappresentarono varie categorie di “ultimi” della nostra società (alienati mentali, drogati, alcolizzati, prostitute, barboni...). Uno di questi personaggi – una donna – attraversò lentamente la scena tenendo un dito sul naso e ripetendo con voce sempre più accorata: «Chi sono io? Chi sono io? Io chi sono?...», fino a dare il senso di un totale smarrimento. Nessuna risposta. E scomparve dietro la tenda. Pochi giorni dopo mi trovai – cosa assai insolita per una claustrale – all’aeroporto della Malpensa e poi in quello di Palermo, in mezzo a una folla concitata, affannata, o svagata e come smarrita; guardando a tutti quei volti tesi, quelle espressioni apatiche o angosciate, mi sembrò di vedere moltiplicata nella realtà che avevo davanti la scena della rappresentazione. Ognuno sembrava dire: «Chi sono io, chi sono io?…». Ognuno era un mistero… Tutti erano carichi di bagagli materiali, ma ancor più carichi di bagagli morali. E io ero lì vestita da monaca con in mano il libro della Liturgia delle Ore che ogni tanto aprivo per pregare, quasi volendo ripercorrerlo tutto; diversissima in mezzo a tutti loro così “diversi”, anch’io mi sono chiesta: «Chi sono io? Chi sono io… per loro? ».
Ecco, quel libro di preghiera – oltre l’abito – indicava la mia identità. Con tutta sicurezza mi è venuta la risposta: «Io sono preghiera per loro, con loro». In quel libro che stringevo tra le mani c’era espressa la mia identità, la mia appartenenza a Dio, e mi sembrava che insieme a quel testo avessi con me il mio monastero, la comunità, tutta la Chiesa. In quel libro della Liturgia delle Ore era racchiuso tutto il mistero della salvezza, che è mistero di Passione, morte e risurrezione. Pregarlo, viverlo è entrare in comunione con Gesù. Da quando sulla Croce Egli ha gridato il suo e nostro dolore, e in questo dolore ha consegnato se stesso per amore, la sofferenza – tutta la sofferenza – è stata trasfigurata, le è stato dato un senso, un fine. È diventata travaglio di vita nuova. Travaglio e fecondità del dolore. Alla domanda rivolta al cardinale slovacco Ján Korec su che cosa avesse maggiormente arricchito la sua esperienza sacerdotale, egli rispose: «Potrei oggi dire – dopo cinquant’anni – che mi ha arricchito più di tutto la persecuzione. Esistono situazioni che ci purificano, ci rendono più umili, ci aprono al mistero della vita e ci avvicinano a Dio. Lui ci fa avvicinare a sé in quei momenti. Esiste una sofferenza purificatrice che diventa per noi benedizione». Sì, esiste una benedizione nella e della sofferenza. Ma non lo si può dire a parole. Alla sofferenza si addice il silenzio. Silenzio di umiltà di fronte a un mistero che ci supera infinitamente; silenzio di compassione che si fa uno con chi soffre; silenzio di fede che getta nel Signore il proprio affanno… Nel suo misterioso disegno di salvezza, il Signore vuole aver bisogno anche della nostra sofferenza, chicco di grano chiamato a diventare spiga. Ciascuno di noi ha una porzione di sofferenza che dovrebbe saper vivere con innocenza, cioè con mitezza, con umiltà, con l’intenzione di unirsi a Cristo, a quel Bambino venuto per essere immolato, a quell’Uomo che muore sulla Croce abbandonandosi alle mani del Padre come ritornato bambino nella greppia di Betlemme.