E' tutto diverso quando scendono in campo gli All Blacks, cala immediato il silenzio nonostante ci siano ottantamila persone. È l’attimo che tutti attendono, il momento della
haka, la danza di guerra che è anche un inno alla vita ed un saluto agli dèi, tradizione ripetuta da oltre 130 anni. In mezzo al campo il capitano maori che lancia l’urlo e incita, quattordici compagni di nero vestiti che seguono all’unisono danzando davanti gli avversari impauriti ed in soggezione. Si dice che grazie alla
haka gli All Blacks inizino ogni match già sul 3 a 0. Sudditanza psicologica conquistata negli anni, statisticamente la squadra più vittoriosa di sempre, non solo tra la palla ovale ma in ogni disciplina sportiva. Oltre il 90% dei match vinti, un marchio sportivo tra i cinque più famosi del mondo insieme a quello della Juventus, del Manchester United o dei Chicago Bulls. Si fa presto a dire chi sono gli All Blacks, per spiegare che cosa sono bisognerebbe essere neozelandesi, popolo pastore e contadino forgiato da vento e nuvole di soli quattro milioni di abitanti ma che da sempre eccelle e vince con l’ovale in mano. Diciassette milioni di pecore, dodici milioni di mucche e cavalli, barche a vela come mezzo di locomozione personale per andare a lavorare o a scuola. Laggiù a est dell’Australia, al di là del Mar di Tasmania, tra l’Isola del Nord e quella del Sud, tra Auckland e la capitale Wellington tutti, adulti, bambini, donne e uomini sognano una cosa sola: diventare un All Black. Chi ha anche solo una presenza è un All Black per sempre e vive come un eroe nazionale, membro di una casta speciale intrisa di leggenda. Vincere con quella maglia è una normale ritualità, perdere non è preso in considerazione, nei rari casi accaduti ci sono interrogazioni parlamentari ed un’intera nazione è in lutto. A fine ottobre vinta la terza Coppa del mondo in Inghilterra contro i rivali australiani, terzo successo ai Mondiali in otto edizioni, la prima conquistata fuori casa. Leggi libri e guardi foto in bianco e nero e vedi sempre quel tris magico di maglia, pantaloncini e calzettoni tutti neri, solo nero, spezzato solo dalla felce argentata sul petto, simbolo di cambiamento e rinascita neozelandese. Laggiù la palla ovale arriva già in culla, s’inizia a giocare scalzi sui prati a tre anni o forse meno, si gioca a scuola e in chiesa, ci sono i migliori allenatori del mondo pronti a forgiare campioni sopraffini nella tecnica di gioco e dalla fisicità unica, mix mi-È cidiale di incroci genetici degli antenati maori oppure dai vicini di casa tongani, samoani, figiani emigrati durante tutto il secolo in Nuova Zelanda per scappare dalla povertà. Come Semisi, tongano fuggito con la moglie Hepi nel 1969 ed approdato a Mangere, sobborgo triste e violento di Auckland. Semisi nel 1975 diventa padre di Siona Tali, più di sei chili alla nascita, meglio conosciuto come Jonah Lomu. Periferia difficile, guai, lampeggianti della polizia, uno zio decapitato col machete davanti a lui, Lomu si è rifugiato nel rugby per non finire in galera. Un uomo dal fisico eccezionale, prima campione del college in salto in lungo, triplo, ostacoli in atletica, capace di correre i 100 metri in meno di undici secondi nonostante sia 120 chili per oltre 1,90 metri di altezza. Veloce in pista e nel rugby un treno in corsa che non si riesce a placcare, caviglie esplosive e piedi leggeri come una ballerina che t’inganna con finte e cambi di passo. A diciannove anni l’esordio e diventa il più giovane All Black di sempre, nel 1995 inizia la sua leggenda quando segna quattro mete all’Inghilterra ai Mondiali, poi ancora un quadriennio di irripetibili vittorie, quattro inglesi abbattuti prima di segnare ai Mondiali 1999. Lomu è un mito mondiale, è spettacolo puro, oltre i confini del rugby. È l’uomo che ha cambiato per sempre il gioco, facendolo diventare più duro, veloce e fisico di quel che era. L’ha cambiato con il professionismo, è stato l’uomo giusto al momento giusto del passaggio ovale tra la bigotta tradizione dilettantistica voluta e mantenuta fino al 1995 e il professionismo. Uno spartiacque, lo volevano nel football americano con un contratto da quattro milioni di dollari, non ha ceduto alle sirene dei dollari ascoltando e incassando dalla federazione neozelandese un solo milione. Soldi comunque, nel rugby mai visti fino ad allora. Nel 1999 qualcosa s’interrompe, Lomu ha problemi ad un rene, va in dialisi e da lì in poi il calvario. Ricoveri e trapianti, qualche partita ogni tanto e un’immensa voglia di tornare semplicemente Lomu. Jonah è morto improvvisamente questa settimana a soli quarant’anni, ha passato la palla come si dice, un arresto cardiaco, eppure stava bene e tutti l’avevano visto ed abbracciato in tribuna ai recenti Mondiali. Il rugby e la Nuova Zelanda sono pieni di leggende e di grandi campioni; lui è il simbolo del cambiamento oltre che il più forte di sempre. Come non bastasse, altro choc per i neo- zelandesi in questa settimana davvero nera. Il capitano Richie McCaw ha deciso di appendere le scarpe al chiodo dopo la conquista dell’ultima Coppa. Non è stato Lomu ma è stato altrettanto formidabile, l’All Black più presente, dal 2001 ad oggi un record di 148 presenze, 141 da titolare, 131 match vinti (90%), 110 da capitano. Ha vinto di tutto e di più, un capitano indiscusso, un leader trascinatore, mai finita una partita senza un occhio pesto o un labbro spaccato, è il giocatore che ha dominato gli anni duemila, interpretando al meglio il passaggio lanciato da Lomu verso il professionismo in termini di capacità di adeguarsi all’evoluzione del gioco e abilità nella gestione fisica delle proprie energie. Nuova Zelanda che deve rialzarsi subito, costruire una nuova squadra vincente senza il suo capitano e senza la simpatia e la dolcezza infinita di Lomu; è finito un ciclo ma la rassegna iridata di Giappone 2019 è dietro l’angolo, c’è una tradizione vincente secolare da continuar. Il popolo neozelandese, placcato duro in questo momento, saprà unirsi ancora in mischia.