Cattolici e cultura. Alici: la trascendenza non può inchinarsi al politically correct
Luigi Alici
Prosegue il dibattito che da diverse settimane anima le pagine di “Avvenire” attorno alle questioni tra cattolicesimo e cultura. In precedenza sono interventi Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino.
Ogni cristiano oggi deve accettare di vivere e costruire la città con gli altri cittadini, insieme, senza però abbandonare la propria identità e la propria tradizione né rassegnarsi a una assimilazione completa «Chiunque crede, pensa; pensa credendo e crede pensando… la fede, se non è pensata, non è nulla». Chi scrive così non è un intellettuale che può permettersi divagazioni salottiere in un’epoca rilassante per la vita cristiana. Il santo vescovo Agostino d’Ippona usa tali parole in un’opera Sulla predestinazione dei santi, scritta due o tre anni prima della morte (430), in una città assediata dai Vandali e occupata da Ariani, quando ogni appello angosciato a serrare le fila sarebbe stato umanamente comprensibile. Ma che senso può avere quel lontano invito a “pensare la fede”, nella nostra epoca dei “post” (postmoderno, postumano, postmetafisico, postsecolare…), che mascherano a malapena un futuro che ci viene incontro così impetuosamente? In un libro pubblicato lo scorso anno dalla Libreria Editrice Vaticana ( Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna), il cardinale De Kesel considera ormai esaurita la posizione di monopolio del cristianesimo come “religione culturale”, in un tempo in cui la stessa cultura occidentale ha cessato di essere religiosa. Dinanzi a tale sfida, secondo l’autore, dobbiamo riconciliarci con un cristianesimo come religione di origine straniera, assumendo il compito che incombe su ogni migrante: integrarsi nella società che lo accoglie, accettando di “vivere e costruire la città con gli altri cittadini, insieme”, senza però ”abbandonare la propria identità e la propria tradizione” né rassegnarsi a una assimilazione completa. Ma se il vecchio “involucro culturale” del cristianesimo è diventato piombo nelle ali della fede, che fare? Abbiamo bisogno di un nuovo apparato di volo, che però potrebbe rapidamente diventare obsoleto, oppure possiamo cullarci nella pia illusione di volare senza ali? Le parole di Agostino, anziché offrirci un diversivo inconcludente, possono indicarci una strada: quando tutto sembra franare, se vogliamo guardare oltre il tramonto di un’epoca, cercando i segni di un’alba che a torto ci sembra lontanissima, abbiamo bisogno di più pensiero, non di meno pensiero. Senza uno sguardo lungo, all’indietro e in avanti, diventiamo prigionieri di un falso dilemma: o accontentarci di una equivoca religione senza fede, rifugiandoci in un consumo devozionale del sacro, fatta di ritualità esclusive e slogan identitari, usati per esorcizzare la paura; oppure accontentarci di una fede senza religione, ridotta a un repertorio intimistico di emozioni private e indolori, compatibili con qualsiasi forma di vita o assetto economico, politico, culturale.
In ogni caso, la falsa antinomia è figlia della medesima illusione: che si possa credere senza pensare, rimanendo in standby nella nostalgia di un tempo che non c’è più, oppure in attesa di un tempo che non c’è ancora. Il rischio l’ha ben segnalato Pierangelo Sequeri, nell’articolo che ha aperto questo dibattito: Molta morale, poca comunità, zero cultura. D’altra parte, con tutti i problemi che pesano oggi sulla vita cristiana, ritrovare il fuoco della elaborazione teologica, della riflessione antropologica, delle progettualità culturali non è forse un lusso che non possiamo più permetterci, proprio come tenere aperte chiese troppo grandi, inutilmente costose? E poi, che senso avrebbe “pensare la fede”, in un’epoca “postmetafisica” come la nostra la nostra? La risposta, non sospetta, di un vecchio laico come Jürgen Habermas, pubblicata nel 2019 in una monumentale storia della filosofia in tre grossi volumi, potrebbe sorprenderci: a suo avviso, «la modernizzazione sociale non deve comportare necessariamente la perdita di significato della religione quale forma contemporanea dello spirito – né nella sfera pubblica politica e nella cultura di una società né nella condotta di vita personale del singolo ». In una società così frammentata, dentro uno scenario globale in cui il sistema tecnologico-finanziario è troppo forte e la politica troppo debole, le religioni possono accreditarsi come comunità globali oltrepassando il loro originario ambiente di civilizzazione e facendosi portatrici sane di «discorsi capaci di verità universalmente accessibili». Qui la provocazione di Habermas trova un singolare punto di incontro non solo con De Kesel, ma ancor più con l’invito di Francesco a universalizzare la fraternità, al centro dell’enciclica Fratelli tutti. Ma come argomentare il potenziale cognitivo della fede cristiana dinanzi all’annuncio del Risorto, senza cadere in una ennesima “culturalizzazione” del kerygma né rinunciare a illuminare criticamente il perimetro umano troppo umano delle nostre vite di corsa? Ritrovando una fede amica della trascendenza, disposta a contemplare l’eccedenza del mistero e l’altezza infinita dello spirituale. Dentro, insieme, oltre: può provare la vertigine della trascendenza solo uno sguardo capace di spaziare sulle profondità della persona, sulla larghezza della fraternità, sull’altezza della promessa misericordiosa di cieli nuovi e terra nuova. Un cristianesimo ridotto a un educato galateo spirituale, disposto a inchinarsi al dogma del “politicamente corretto”, è figlio solo di sguardi evasivi e rattrappiti, parenti stretti di cuori spenti e chiusi. Una dilagante afasia escatologica ne è la conferma più imbarazzante. E non si dica che gli orizzonti lontani sono una fuga dal presente. Dobbiamo piuttosto aver paura di una storia abitata solo da assoluti terrestri: il cattivo infinito è sempre il peggior nemico della nostra finitezza. No, la trascendenza non è nemica della storia. Può esserne anzi la migliore alleata, quando ci ricorda che siamo animali verticali: alzare la testa e guardare il cielo aiuta quasi sempre anche a tenere i piedi per terra.