Musica. Alice: Battiato sarà sempre con me
Franco Battiato e Alice, la loro collaborazione cominciò nel 1980 con la hit “Il vento caldo dell’estate
Un approccio sacrale. Come un sigillo. Quello apposto ancora oggi da Alice sulle canzoni di Franco Battiato. Dopo 96 concerti, ecco l’album. Niente streaming per ora, solo da gennaio. Perché le sedici canzoni scelte, dalla quasi primigenia Da Oriente a Occidente (dall’album del ‘73 Sulle corde di Aries) all’ultimo testamentario atto di Torneremo ancora, sono perle inanellate una per una e cesellate dalla “cura” vocale ed espressiva della grande cantante che del genio siciliano è la più autentica testimone. Da quando se ne è andato, il 18 maggio dell’anno scorso, è Alice a incarnarne l’essenza e l’eredità, non soltanto attraverso le canzoni ma anche in virtù di una sottile consonanza umana e spirituale. Fregiandosi così del capolavoro Eri con me, incantevole album uscito ieri in vinile e cd per Bmg con la produzione di Francesco Cattini e la supervisione di Francesco Messina, registrato in studio con il pianista Carlo Guaitoli (per decenni al fianco di Battiato) e con i Solisti Filarmonici Italiani.
Alice, è caso o destino che festeggi i suoi 50 anni di carriera cantando Battiato?
Non avevo proprio pensato che il mio primo 45 giri risale al 1972. A volte le cose succedono in modo misterioso. Me ne sono resa conto quando ho ritirato il Premio Tenco a Sanremo. Su quel palco ho veramente capito che faccio dischi da così tanti anni. Sono stupita di quanto la vita mi abbia concesso. Non avrei mai immaginato di poter vivere musicalmente così a lungo con tutta la mia libertà. Però senza Franco avrei smesso ancora di cantare. Lo avevo fatto già due volte. Non avrei continuato. Poi è arrivato lui, il successo de Il vento caldo dell’estate nel 1980 e la vittoria a Sanremo l’anno dopo con Per Elisa. Non ho mai avuto paura delle decisioni drastiche e ho sempre seguito il mio sentire, anche quando andava contro tutto. Sapevo fin dagli inizi quello che non volevo fare. Ma in questo è stato Franco il più esemplare.
Come libertà creativa?
Sì, lui era sempre se stesso, anche quando faceva i film. Con qualsiasi strumento artistico si esprimesse era lui. Non gli interessava se il linguaggio che utilizzava non era nei canoni. Quello che mi ha sempre colpito è che riuscisse a esprimere ciò che desiderava con le sue peculiarità, in musica come nei film e nella pittura. E pensare che quando l’ho conosciuto non sapeva tirare una riga. Ma lui ha sempre lavorato per superare i propri limiti.
Anche la sua voce era unica, così interiorizzata...
Sulla voce Franco ha fatto per anni un lavoro molto preciso, desiderava raggiungere un obiettivo e ci è riuscito, sempre con una intonazione perfetta. L’ho visto anche nel nostro tour del 2016. Aveva già qualche difficoltà, eppure a livello vocale l’intonazione era perfetta. All’inizio della nostra collaborazione, con gli album Capo Nord e Alice, mi fermavo in pausa a casa sua e ricordo che dopo pranzo si ritirava a fare vocalizzi. Aveva sviluppato una capacità unica di esprimere un sentimento a livello vocale, non voleva manifestare se stesso ma una purezza quasi impersonale. Per lui contava l’essenza che doveva arrivare all’ascoltatore.
Perché in un disco così elevato manca uno dei vertici di Battiato come L’ombra della luce?
Ci ho molto pensato, perché è un brano ispirato a Franco dall’alto. Ma ho deciso di non farlo perché nell’equilibrio generale sarebbe stato troppo, è un disco già molto denso. E poi l’avevo già cantato insieme a Un oceano di silenzio nell’album God is my DJ. In linea di massima ho privilegiato canzoni che non avevo mai registrato. All’inizio i pezzi dovevano essere meno, ma è stata dura togliere, così ecco che ce ne sono sedici. E ho affidato la conclusione a Torneremo ancora anche se non ero certa di volerla inserire, per rispetto profondo alla sua versione in cui canta ormai con un filo di voce.
E a Le nostre anime aveva pensato?
Altro brano straordinario, tra i penultimi pubblicati da Franco, in cui arriva a invocare l’amore pronunciando espressamente questa parola che non ha quasi mai messo nelle sue canzoni. Lì la urla nel finale, perché è l’amore superiore, trascendente, quello divino. L’amore che ci libera da ciò che ci appesantisce, dal senso del possesso che ci impedisce veramente di amare. Forse nella nostra umanità dobbiamo passare attraverso l’amore egoistico per comprendere che è una schiavitù, non è veramente amore. C’è ancora troppo Ego per poter vivere l’amore che ci comprende, che ci abita e vivifica. Franco questo l’aveva ben chiaro, non era solo un concetto. L’Ego deve essere messo al servizio della nostra natura più essenziale, invece finisce col prendere il sopravvento. Ostacolando la compassione.
Oltre al suo 50° di carriera, 40 anni fa esatti usciva anche Chanson egocentrique, il vostro primo duetto…
Sì, il testo con lo pseudonimo Tommaso Tramonti era di Henri Thomasson, allievo di Gurdjeff. Io all’epoca non conoscevo ancora la scuola che faceva capo al filosofo e mistico armeno, però quando avevo sentito il provino di Franco chitarra e voce questa canzone mi aveva colpita molto. L’allora nostro discografico Michele Di Lernia mi convinse a cantarla e io a mia volta convinsi Franco a farla insieme in duetto. E in questo disco il brano non poteva non comparire insieme a I treni di Tozeur.
Com’era lavorare con Battiato?
Quando lavorava era completamente concentrato. Aveva un livello di attenzione assoluto. Si cominciava alle 9 e si finiva a mezzogiorno e mezza. Poi si riprendeva alle tre e si finiva alle sette e mezza di sera. Otto ore in cui non c’era dispersione e si lavorava con grande leggerezza. Ma Franco sapeva anche essere duro, soprattutto quando si trattava di musica. Negli ultimi tempi si era molto ammorbidito, ma nei primi anni 80 era intransigente sulle sue composizioni. Guai a cambiargli una nota.
All’inizio era anche un po’ snob?
Non ho mai percepito in Franco alcun senso di superiorità, gli dava solo fastidio la mediocrità. Ma come dargli torto? Non lo definirei comunque snob, ma cosciente.
Non le è mai capitato di indispettirlo? Più che indispettirlo, una volta l’ho fatto arrabbiare terribilmente. Ma non racconto perché.