Agorà

Anniversario. Il funambolico e giocoso Palazzeschi a 50 anni dalla morte

Roberto Carnero sabato 17 agosto 2024

Aldo Palazzeschi

Si spegneva cinquant'anni fa a Roma, il 17 agosto 1974, Aldo Palazzeschi. Era nato a Firenze il 2 febbraio 1885, all'anagrafe Aldo Giurlani. Dopo aver frequentato una scuola di recitazione, decise di dedicarsi alla letteratura, esordendo, all'età di vent'anni, con la raccolta di versi di sapore crepuscolare I cavalli bianchi (1905), con lo pseudonimo di Palazzeschi dal cognome della nonna. Dopo un soggiorno parigino, si avvicina al Futurismo. Nel 1916 viene chiamato alle armi come soldato semplice e, finito il conflitto, inizia a condurre un’esistenza appartata e solitaria, rimanendo estraneo al fascismo e impegnandosi soprattutto in un’attività di narratore che gli guadagna i favori del pubblico. Dopo aver vissuto a Firenze fino al 1950, si trasferisce a Roma, dove trascorrerà il resto della vita.

Di fronte a Palazzeschi, gli autori delle storie letterarie sono sempre un po’ in imbarazzo. Dove collocarlo? Nel capitolo sul Crepuscolarismo o in quello sul Futurismo? La difficoltà è legata al fatto che si tratta di due correnti letterarie i cui capisaldi di poetica sono molto diversi per non dire opposti: il fatto che Palazzeschi le abbia attraversate giungendo a una personale sintesi artistica è il segno della sua originalità.

Lo scrittore risente infatti della temperie crepuscolare nelle sue prime opere: oltre ai citati Cavalli bianchi, le raccolte poetiche Lanterna (1907) e Poemi (1909), ma anche il romanzo liberty :riflessi (1908). Tutti questi volumi dichiarano come editore Cesare Blanc (che era il nome del gatto dell’autore), sigla usata dalla tipografia che lo scrittore aveva incaricato della stampa. Nel 1909 ha inizio il carteggio con Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo. L'assimilazione della poetica futurista è evidente nel volume di poesie L’incendiario (1910), opera bizzarra, caratterizzata da allegria esplosiva, foga iconoclasta e spiriti irriverenti. La stessa carica fantastica e giocosa anima il romanzo Il codice di Perelà (1911), una favola allegorica che ha per protagonista un «uomo di fumo», simbolo di una libertà sfrenata e ingovernabile, destinato a gettare lo scompiglio tra gli abitanti di un regno immaginario.

Nel manifesto Il controdolore (1914) il riso viene rivendicato come una forza liberatrice e catartica, capace di irridere il moralismo borghese, del quale capovolge valori e mentalità. «Se credete che sia profondo ciò che comunemente s’intende per serio siete dei superficiali», scrive Palazzeschi. Per aggiungere più avanti: «Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui attualmente si piange (...). L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride». E ancora: «Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo». Questa visione dissacrante e trasgressiva della realtà è indubbiamente affine allo spirito futurista. Tuttavia, l’approccio fanciullesco e favolistico, che invoca il riso e lo scherzo per strappare l’involucro di dolore da cui ciascuno è avvolto, finisce per collocare la scrittura e l’immaginario di Palazzeschi in una posizione autonoma, destinata a emanciparsi dal gruppo marinettiano. Così, il rifiuto di ogni impegno politico (men che meno di tendenza nazionalistica) lo allontana dai futuristi, fino a una netta presa di distanza, alla vigilia della Prima guerra mondiale, dalle posizioni interventiste che li contraddistinguono.

Da un punto di vista stilistico, il funambolismo di Palazzeschi finisce a poco a poco per stemperarsi in forme più regolari e tradizionali. Deluso dall’avanguardia, l’autore obbedisce nel primo dopoguerra al “ritorno all’ordine” che caratterizza molta letteratura del tempo. Si delinea in tal modo un terzo Palazzeschi (dopo quello crepuscolare e futurista). Questa è peraltro la fase più lunga della sua carriera letteraria, una fase durata mezzo secolo. Scrive così romanzi quasi ottocenteschi per struttura e contenuto, come Sorelle Materassi (1934), e raccolte di novelle come Il palio dei buffi (1937), in cui l’ironia è il segno di una visione disincantata della vita. Tra le opere successive, ricordiamo i romanzi I fratelli Cuccoli (1948), Roma (1953), Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971). Nell’ultima fase della sua produzione l’autore torna ai modi giocosi e fantastici degli esordi con raccolte poetiche quali Cuor mio (1968) e Via delle cento stelle (1972).

Ha scritto un critico suo contemporaneo, Pietro Pancrazi: «Quello che, fin da principio, non conviene chiedere a (...) Palazzeschi, già lo sappiamo: una logica rigorosa, un sentimento saldo non saranno mai l’affar suo; e il giudizio morale gli è estraneo: il suo occhio, sempre così acuto, a quel punto si fa atono. Ma si sa anche che, lasciato in libertà, questo scrittore sa raccontare certe cose e sopra un certo tono che nessun altro potrebbe. E sappiamo che a momenti il suo umorismo regge a un grado di intimazione proibito quasi a tutti». Un giudizio che se da un lato evidenzia i limiti dell’arte palazzeschiana, dall’altro ha il merito di coglierne l’essenza più profonda, ciò che continua a rendercelo caro.