Letteratura. Alberto Manguel, leggendo Borges riaffiora Dante
Gli argentini di Buenos Aires lo chiamano inverno. Per noi italiani è poco meno che una primavera. Nelle giornate di vacaciones di fine luglio, le signore passeggiano per le vie eleganti della Recoleta avvolte da lunghe sciarpe di lana e cappotti di mezza taglia, mentre le loro cameriere le seguono trascinando cani, pacchi e pacchetti vestite solo di un grembiulino rosa. Il sole risplende sul verde dei prati e dei grandi alberi del viale che da Avenida Del Libertador sale su verso Calle Agüro, in cima alla collinetta dove poggia massiccia la Biblioteca Nacional. Il direttore Alberto Manguel ci riceve con garbo affettuoso e senza grandi cerimonie. È un nobile pratico. Sa che abbiamo fatto un lungo viaggio per incontrarlo e non vuole che si perda altro tempo per parlare di un argomento che gli sta molto a cuore: Dante e Borges. Nel luglio del 2018 la Società Dante Alighieri terrà a Buenos Aires un grande convegno latinoamericano sul futuro della lingua italiana e per l’occasione Manguel sarebbe felice di poter ricordare l’autore dei Nove saggi danteschi (1982) e dell’Aleph (1942), racconti liberamente ispirati alla Divina Commedia. «Come ricordo nel mio ultimo libro Con Borges (Siglo Ventiuno Editores) – racconta senza enfasi il direttore – lo scrittore argentino amava anche molti altri autori italiani come Croce, Calvino, Pirandello e De Chirico, ma Dante per lui era un grande classico, al pari di Shakespeare». E chi meglio di Manguel può testimoniarlo? È uno scrittore noto in tutto il mondo, ha ricevuto molti premi, è poliglotta e ha viaggiato tanto, ha letto migliaia di libri per sé ma soprattutto per Borges. Difatti, nel 1964, a sedici anni, lavorava come commesso alla libreria Pygmalion di Buenos Aires quando vide entrare un signore distinto, alto, dai capelli bianchi e dall’andatura incerta, aiutato da un bastone di legno nodoso. Si aggirava sicuro tra gli scaffali chiedendo notizie degli ultimi arrivi, ma era cieco! Fu da quell’incontro che Alberto Manguel divenne uno dei pochi lettori ammessi nella casa del grande scrittore argentino, almeno fino al 1968. Un destino! Come Borges anche Manguel è diventato direttore di quell’immenso labirinto di libri che è la Biblioteca Nacional di Buenos Aires, una gigantesca astronave poggiata su enormi piloni di cemento che sembrano le zampe di un insetto. A disegnarla nel 1971 fu l’architetto napoletano naturalizzato argentino Clorindo Testa, esponente della corrente brutalista e a inaugurarla, vent’anni dopo, nel 1992 ci pensò il presidente Carlos Menem. «A mio giudizio – confessa mostrandoci rare edizioni della Divina Commedia custodite gelosamente in un’ala protetta della Biblioteca – Dante suona con una marcata eco borgiana. Mi ricorda la strofa del quinto canto del Purgatorio che descrive Buonconte “fuggendo a piede e ’nsanguinando il piano”. Per me queste sono frasi coniate proprio per Borges». Dante è inevitabile direbbe Ismail Kadare. Anche Alberto Manguel in Una storia naturale della curiosità (Feltrinelli), lascia che sia Dante a guidare l’umanità alla ricerca della giusta rotta verso un percorso rivelatore. E Borges il suo percorso lo aveva compiuto con la Commedia in mano nel lento tragitto in tranvai tra la sua casa e la biblioteca in cui lavorava. Il Direttore richiude una preziosa edizione dantesca stampata a Venezia sul finire del ’400 e lo sguardo malinconico va alla scrivania del suo maestro lì conservata. Prima di congedarci, Manguel ricorda: «L’ultima volta che vidi Borges fu nel 1985 all’Hotel de París. Mi parlò delle città che considerava sue, Ginevra, Montevideo, Nara, Austin, Buenos Aires e in quali di queste avrebbe voluto morire. Scartò Nara, in Giappone, dove aveva sognato una terribile immagine di Buddha. Mi disse: “non quiero morir en un idioma que no puedo intender” (non voglio morire in una lingua che non posso capire) . Forse come Dante anche lui presagiva che la sua città natale non avrebbe ospitato le sue ossa». Dal 1986, difatti, riposa al Mortuaire de Plainpalais di Ginevra, in Svizzera, dove l’inverno è davvero inverno.