Classici. Leon Battista Alberti, l'umanista al di sopra delle righe
La statua di Leon Battista Alberti nella piazza degli Uffizi a Firenze
Per trentasette anni mi sono affacciata dallo studio sulla fiancata destra del Tempio malatestiano di Rimini, che Sigismondo Malatesta aveva commissionato, intorno al 1450, a Leon Battista Alberti, dopo averlo consultato per le fortificazioni di Senigallia (come aveva fatto con Brunelleschi a Rimini, affidandosi al Valturio per le macchine della guerra). Lì sono le arche degli umanisti della sua corte, e nella terza le spoglie di Gemisto Pletone, «principe dei filosofi del suo tempo», che nella scuola neoplatonica di Mistrà esaltava il sole come creatore di tutto, affermando che la terra avrebbe avuto una sola fede religiosa, una sola mente, una sola anima. Si riconduceva all’Uno di Platone, tanto che lo si diceva un Platone reincarnato, come scrisse il cardinale Bessarione. Nel 1465, al ritorno dalla disastrosa guerra di Morea contro i Turchi, Sigismondo lo portò a Rimini, come l’unica reliquia della Grecia neoplatonica che aveva potuto strappare ai nuovi signori di Bisanzio, insediati dal 1453.
Ma non si nascondeva uno spirito neopagano nelle strutture e nelle liturgie della religione cattolica romana che apparentemente Sigismondo osservava? Lo credette il papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, che visitò il Tempio nella primavera 1459, recandosi al Concilio di Mantova, indetto per convincere i sovrani d’Europa a prendere le armi contro i Turchi. Perché racconto tutto questo? Perché mentre gli ultimi Paleologi si disperavano di ottenere aiuti dall’Europa, nel loro crollo imminente, l’ultimo tentativo di conciliare la chiesa latina e quella ortodossa era stato fatto a Ferrara e Firenze tra il 1431 e il 1445, e una trasfusione greca era sopraggiunta. Le corti italiane continuavano a combattersi, s’infiltravano le potenze straniere. A Firenze governavano i Medici, dal 1434. Fu uno sbocciare incredibile di opere di letteratura e d’arte magnifiche, che sarebbero durate, loro sì, a dispetto della metamorfica, velocissima precarietà dei tempi. Si agognava alla stabilità, ma si era costretti al camaleontismo: già quello di Machiavelli, della «golpe» e del «lione». Perciò Sigismondo e Leon Battista Alberti sono due emblemi.
Con molta ragione Giulio Busi abbina «il condottiero in odore di zolfo, e l’umanista al di sopra delle righe »: «Due irregolari di genio, innamorati delle novità, misurati qualche volta, smisurati molto spesso». A differenza dalla chiesa di San Sebastiano e dalla Basilica di Sant’Andrea a Mantova, frutto del rapporto di Alberti con i solidi Gonzaga, alla morte di Sigismondo, nell’ottobre 1468, il Tempio di Rimini restò incompiuto. Sebbene il non finito abbia maggiore fascino, per noi figli delle rovine romantiche, è indubbio che ciò si debba al «migliore perdente» (così Pound) in politica. Nel bellissimo Meridiano (Mondadori, pagine 1.704, euro 76,00) che intitola I cantieri dell’Umanesimo, Busi raccoglie un’ampia antologia degli scritti di Alberti, tradotti dal latino e in volgare: gli Intercenali, il Momo, I libri della famiglia, Della tranquillità dell’animo, La villa, Della pittura, Della statua, L’architettura, le Rime, l’Autobiografia. Coprendo i principali interessi: comico-fantastico-satirici alla Luciano, poetici, moralistico- economici, d’arte: e la costruzione di sé allo specchio, che fece sui quarant’anni, raccontandosi come un eroe dominatore della fortuna.
Esuli il padre Lorenzo e tutti i maschi Alberti, i ricchissimi mercanti che pur contavano su una fortissima rete internazionale: lui che nasce come il fratello Carlo a Genova da madre non svelata, la riconquista nel ritorno a Firenze, prima della ricaduta definitiva dei parenti. Ma soprattutto la lotta fisica e intellettuale del “dominante”. Leon Battista si getta anima e corpo in un’educazione liberale che abbraccia armi, cavalli, musica, lettere, pittura, scultura, architettura. Con slancio altissimo si arrampica alla conquista della fama, come nelle ardue scalate di montagna. Confida nel «raggio luminoso » del cuore con cui penetra uomini e cose: l’occhio alato della medaglia che Matteo de’ Pasti gli incide con il motto «Quid tum?». Ma non è così invicibile. Si sfinisce negli studi di diritto a Bologna, li rigetta, solo nella maturità li recupera, nella lenta crescita presso la curia di Roma, mentre fonde le discipline più varie, archeologo dei monumenti antichi, emulo di Vitruvio, di cui possiede un prezioso codice. Ne adotta i fondamenti: firmitas, utilitas, venustas.
È un camaleonte che costruisce con tasselli di rovine, ottenendo risultati di smagliante novità. La virtù del camaleonte - che Busi analizza ricordando il “suo” Pico della Mirandola, influenzato dall’Alberti - è in primo luogo arte del vivere che forse lo «spigoloso» Alberti non possiede appieno: tranne nelle opere, di scrittore e architetto. Così autorevole da bloccare a San Pietro l’erezione di un muro di cui non è dimostrabile la sicurezza, da restaurare Santa Maria Maggiore, e progettare Palazzo Venezia: da disegnare, su richiesta dell’amico Giovanni Rucellai la mirabile facciata di Santa Maria del Fiore e quella del palazzo Rucellai, il Tempietto del Santo Sepolcro nella cappella di famiglia a San Pancrazio, e la loro Loggia: da ottenere la fiducia di Ludovico Gonzaga e della moglie Barbara di Brandeburgo, genitori del cardinale Francesco, per le chiese mantovane. Sovrabbondante e dotatissimo, eccelle. Anche nelle Rime giovanili: mobi-li, ritmiche, variabili, di quel gusto sperimentale acre, giocoso, che è uno degli spiriti della poesia italiana, a fianco di lirica ed epica.
Legato a Pio II - vero umanista e principale responsabile della disfatta di Sigismondo, che fa bruciare in effigie, pur riconoscendone cultura e qualità - Alberti è un simbolo di quell’Umanesimo così straordinario, unico e diverso in ogni città d’Italia, ma soggetto alla fortuna. Misteriosissimo nella sua complessità come il progetto dell’Uno di Platone: quell’«Unità della irraggiungibile verità» che viene conosciuta principalmente, scrisse Niccolò da Cusa, «nell’alterità delle congetture». In nessun altro come nell’Alberti l’armonia o unità ( concinnitas, euritmia, loro bellezza) è frutto di un senso concorde, numerico, infinitamente complesso fra le parti, le materie materie differenti, la natura e i sensi nella molteplicità delle relazioni, e dei contrasti. Ma l’ispirazione viene dalla natura: l’edificio è come un «organismo animale». Bisogna imitare i corpi, pensare alla bellezza come quando si sceglie la fanciulla da amare: vi concorre una ragione nata dentro all’anima. Come un’opera letteraria, un edificio non è soltanto un gioco dei numeri o una forma statica. Deve serbare l’essere vivo: l’«organismo animale ».
Allora penso alle membra slanciate, alla tensione dell’atleta che fu l’Alberti, innamorato delle forme e dei colori della natura, del flusso dell’anima nei riflessi della materia. Penso all’uomo che da Genova nuotò nei canali di Venezia e ne assorbì i riverberi, li nascose negli asciutti disegni di Firenze, li diffuse nella magniloquenza della curia romana, e lasciò nel Tempio di Rimini una conchiglia erosa dalle maree, bianca sotto il sole, candida sotto la luna.