Agorà

Il decano. ALBERTAZZI in scena senza età

Angela Calvini martedì 17 giugno 2014
«Sono un ragazzo con qualche annetto e non ho mai lavorato tanto in vita mia». Giorgio Albertazzi, 91 anni il prossimo 20 agosto, ride lusingato quando gli si fa notare che non dimostra affatto la sua età. Lucido, ironico, vitalissimo, il mattatore affronta un’estate ricca di appuntamenti. Sarà in tournée per l’Italia con la nuova edizione de Il mercante di Venezia di cui cura l’adattamento, nel ruolo di Shylock, regia di Giancarlo Marinelli, con un nutrito cast di giovani attori (il 3 agosto chiuderà il Festival del Vittoriano a Gardone Riviera). «Il 3 luglio aprirò la stagione del Sacro Monte di Varese leggendo un testo importante come I canti della Rocca di Eliot – anticipa – mentre ho in ballo anche due film e uno sceneggiato tv». Maestro, fra tanti progetti ne avrà uno che le sta più a cuore? «Devo ammettere che io, fiorentino, ho provato pochi giorni fa un’emozione immensa recitando Dante sul Ponte Vecchio. È stato un grandissimo successo, non era mai stato fatto prima, sa? Ho ancora negli occhi la gente che passa di lì alle 7 di sera, un sole smagliante dietro la statua di Benvenuto Cellini, l’Arno che risplende, e centinaia e centinaia di persone venute lì apposta per sentire me che recitavo Dante. Meraviglioso, un’emozione unica». Il pubblico le sta dimostrando sempre più affetto, o sbaglio? «È vero, mai come adesso sento un affetto davvero totale. Certo, l’affetto del pubblico l’ho sempre avuto anche grazie alla televisione, quando iniziai con L’appuntamento con la novella. Il divismo televisivo l’ho iniziato io, ma per una questione anagrafica». In tanti le chiederanno il segreto della sua giovinezza. «Mah, ci sono persone che hanno un certo destino, uomini che non sono padri, alcuni che sono nati con la faccia da mariti, altri con la faccia da amante. Una questione di fisiognomica, credo. Anche nel teatro funziona così. Per esempio, Glauco Mauri, che è un attore straordinario, ha meno anni di me, eppure ha fatto mio padre ne La figlia di Iorio. E Anna Proclemer ha fatto mia madre». Anche Shylock, però, è un padre. «Io ho lavorato molto sul testo. Per me Shylock innanzitutto è un signore veneziano, un ebreo di Venezia. Non è nemico dei cristiani anche se i cristiani non lo trattano tante bene. Lo definiscono usuraio, ma lui, dice, presta denaro come le banche: l’importante è mantenere interessi nella giusta misura. È un signore molto solo, che ha un amore straordinario per la figlia che gli ricorda la moglie che ha perduto. Il punto debole è la figlia, che lo tradisce, rubandogli oro e argento, e fuggendo con un cristiano. Così lui perde tutto. Questo è un momento tragico, in effetti. Ma Shakespeare sfiora sempre la tragedia: c’è sempre in lui un elemento di graffiante umorismo, di ironia. Nei momenti gravi mette i clown. È come Picasso. In Guernica c’è la guerra, ma c’è anche il grido del cavallo, l’armonia delle forme». È per questo che Shakespeare è così tanto rappresentato ancora oggi? «Io sono incantato, non c’è nessuno come lui. Ogni tanto mi dico: ma ha scritto questa cosa nel Seicento? Ma come è possibile, ma chi era? Lui fa quello che dice Lucrezio: sposa la poesia con la scienza e con la filosofia. Questo in Shakespeare diventa futuro, possibilità di salvezza. Se c’è qualcosa che potrà salvarci da questa catastrofe, è quello che ci indica lui. Oggi il pianeta che si sta sgretolando, facciamo finta di non saperlo, ci sono alluvioni, tsunami, terremoti. E la società è ferma all’età del ferro, con il maschio che è rimasto inadeguato di fronte alla donna che va avanti. Il mondo deve essere delle donne, il potere deve andare a loro». Cosa rende un testo moderno? «Le drammaturgie famose in gran parte sono invecchiate, il teatro scritto invecchia rapidamente perché non è ancora teatro. Il teatro è scrittura di scena, qualcosa che sta fra il testo è l’attore che lo interpreta. Il teatro spesso si distanzia dal testo originale. In quello scritto, l’autore a volte lascia qualcosa che non ha saputo o voluto dire. Lì entra l’attore, che può essere veramente creativo e importante». Come lei? «Beh, in un certo senso… Io non mi baso sul significato delle parole, vado cercando il suono, cosa c’è dietro la parola, oltre il silenzio: è lì che si scatena questa specie di miscela misteriosa che è l’espressione teatrale. L’espressione di uno che rischia la vita, perché la vita ti può scoppiare in mano. Il teatro è un atto d’amore. E lo sa perché io resto giovane? Perché ogni volta che vado in scena, sono a casa mia».