Agorà

Piacenza. Al Collegio Alberoni nuove stanze per l'"Ecce Homo" di Antonello

Alessandro Beltrami venerdì 11 marzo 2022

La sala dell'Ecce Homo

Uno sguardo dritto, aperto, indimenticabile. Un a tu per tu così ravvicinato da trasformare la storia sacra in un qui e ora. È uno dei segreti della pittura religiosa di Antonello da Messina, artista che porta nell’iconografia sacra la presenza viva del ritratto. È la chiave attraverso cui l’artista siciliano, tra i primi a sperimentare in Italia la tecnica fiamminga della pittura a olio, ha interpretato una serie straordinaria di Ecce Homo, il più bello dei quali torna visibile in questi giorni. Sabato, infatti, dopo un complesso intervento di ristrutturazione e di riallestimento secondo moderni canoni museali e di conservazione, riapre a Piacenza l’appartamento del Cardinale Alberoni presso l’omonimo collegio creato dal porporato nel XVIII secolo per la formazione al sacerdozio e fin dalla nascita affidato ai padri della Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli. Divenuto già subito dopo la morte di Giulio Alberoni, avvenuta nel 1752, luogo di esposizione dell’importante collezione raccolta nei suoi anni romani ma anche durante il periodo passato in Spagna come primo ministro dei Borbone, l’appartamento riallestito per la cura dello storico dell’arte Angelo Loda, vede ampliato il numero di opere esposte, con lavori tra gli altri di Luca Giordano, Guido Reni, Zenone Veronese, Andrea Camassei, Placido Costanzi, Jusepe de Ribera e un prezioso nucleo di autori fiamminghi, tra cui spiccano un dittico di Jan Provost, tra le perle più note della collezione alberoniana e sistemato in una teca ad hoc in una saletta dedicata, e una rara Apparizione di Gesù risorto alla Vergine riassegnata per l’occasione a Gerard David.

Il dittico di Jan Provost - -

Negli ambienti trovano inoltre posto la maestosa scrivania barocca di Alberoni e una prestigiosa selezione di argenti, sempre legati alla committenza e al collezionismo alberoniani, tra cui un busto reliquario di san Vincenzo de’ Paoli, di Angelo Maria Spinazzi, e un ostensorio d’argento gemmato e dorato, dello stesso Spinazzi, che Andrea Pilato, curatore della sezione, considera tra i vertici dell’oreficeria tardobarocca di ambito romano. L’Ecce Homo (o Cristo alla colonna come, giustamente osserva Loda, andrebbe identificato dal punto di vista iconografico) di Antonello conclude l’intero percorso anche dal punto di vista simbolico.

Padre Erminio Antonello: «Un Amore mite, che non accusa, ma nemmeno tace per il male ricevuto»​

Il vincenziano padre Erminio Antonello, infatti, ha curato una lettura teologica delle opere. Il filo rosso è la presenza della lacrime: «Da una parte – spiega – nell’Ecce Homo di Antonello da Messina brillano le lacrime luminose di Gesù e dall’altra, nel San Pietro di Guido Reni, quelle amare dell’apostolo. Le une, di delusione; le altre cariche della desolazione per il tradimento. Ogni pianto è un’esperienza originaria dell’unicità della persona umana e ha la sua ragione emotiva, portando in evidenza lo scarto tra il desiderio di bene e l’impossibilità del suo compimento. Se il pianto di Pietro rientra nei canoni dell’umano tradito, le lacrime del Cristo di Antonello, nella loro originalità iconica, sono invece scandalose, lasciando trapelare l’inequivocabile umanità del Figlio di Dio. Non è degno di Dio piangere. Eppure il cristianesimo non disdegna di narrare la debolezza di Gesù, il Figlio di Dio, poiché altrimenti non sarebbe entrato veramente nella nostra umanità. E Antonello segue fino in fondo questa verità con tutta naturalezza dando però alle lacrime del Cristo lo splendore della trascendenza: la trascendenza di un Amore mite, che non accusa, ma nemmeno tace per il male ricevuto rivolgendosi allo spettatore con la domanda: “Popolo mio che male ti ho fatto?”. Questo è l’esergo che introduce a leggere l’Ecce Homo e ne accompagna la visita».

La Sala degli Argenti - -

Domani, in occasione della riapertura, nella Sala degli Arazzi della Galleria Alberoni, Pierangelo Sequeri, in dialogo con l’Orchestra Sinfonica Esagramma, ensemble in cui suonano fianco a fianco musicisti con e senza disabilità, terrà una riflessione sull’Ecce Homo antonelliano. Da domenica le prime visite guidate per il pubblico, su prenotazione, con uno speciale orario no stop dalle 15 alle 19.

La conservatrice Francesca De Vita: «Dipinto fragilissimo. Meno lo si tocca meglio è»​

Il dipinto di Antonello è sottoposto a un monitoraggio costante da parte della conservatrice Francesca De Vita, che ha in cura il capolavoro da venti anni. «Abbiamo optato per una conservazione assolutamente passiva – spiega - La tavola ha subito molti stress in occasione dell’ultimo prestito, ci sono stati sollevamenti di colore. Anziché intervenire direttamente si è preferito regolare le condizioni di umidità e lasciare che il legno si assestasse. Ma il dipinto in generale è fragilissimo. Meno lo si tocca meglio è».

L'"Ecce Homo" di Antonello da Messina - -

La tavola presenta segni di tarli e altri insetti xilofagi: «Alcuni sono stati prodotti da insetti quando ancora la pianta era in vita, molti corrono sotto la pellicola pittorica». Il dipinto è stato oggetto a partire dal 2018 di una serie di analisi estremamente complesse grazie diversi laboratori del CNR, che hanno consentito di ricostruire «un’ immagine, per dirla un po’ semplificata, composta da 870 strati. E questo per un dipinto il cui spessore massimo, in corrispondenza della corda e della corona di spine, è di soli 0,6 millimetri». L’oggetto digitale a tre dimensioni che ne è risultato consente di “sfogliare” per strati tutto il dipinto fino a un livello di dettaglio impensabile, una enorme quantità di dati che facilita un monitoraggio estremamente puntuale.

Tra gli elementi inattesi emersi dall’indagine c’è ad esempio il colore scuro dello sfondo: «È una tinta a base di rame, forse verderame, e probabilmente nerofumo, steso su una base di arancio che copre tutte le parti scure tranne gli incarnati e quindi anche sotto i capelli. Su questo colore nero, sopra un ricciolo e in alto nei pressi della colonna, abbiamo trovato due impronte digitali, come per verificare che si fosse asciugato. Non credo che siano di Antonello, però, perché sapeva perfettamente i tempi del processo».

Il rame torna poi nella cartiglio con la firma “Antonellus Messineus me pinxit”. «Una scelta insolita, avrebbe potuto usare un altro pigmento più consueto. Ma Antonello deve aver cercato la fluidità dell’inchiostro, e la scritta appare come se fosse fatta con un pennino».