Novecento. Albania: «Silenzio, tuo fratello ti ascolta»
Tirana nel 1989
«Anche i muri hanno orecchie ». Così la gente parlava dei metodi della polizia segreta in Albania durante gli anni del regime dittatoriale di Enver Hoxha, per indicare il controllo opprimente e capillare che essa esercitava sulla vita di tutti i cittadini. La famosa Sigurimi, sciolta proprio trent’anni fa, nell’anno delle elezioni pluripartitiche e delle prime fughe di massa all’estero, è stata una delle più cupe e invadenti strutture spionistiche dell’Est. Il fatto è che l’Albania è un Paese particolare. Piccolo e strategico, ha sempre avuto la sindrome dell’invasione e i suoi abitanti, soprattutto nella capitale, sono una comunità in cui praticamente tutti si conoscono. E allora il regime ha giocato su questa rete di relazioni strette, per ottenere informazioni. Anche un fratello o un cugino di un sospettato poteva essere reclutato come spia. Tanti spiati sono ancora in vita, testimoni di quel paranoico clima di sospetto che almeno metà degli albanesi ha vissuto. Sono storie di vite rovinate e soprattutto di gioventù perdute. Sono le “vite degli altri” dell’Albania. Come quella di Fatos Lubonja. Fatos è una figura popolare: la gente lo riconosce e lo ferma per strada perché in televisione commenta quotidianamente l’attualità politica. È autorevole anche per la sua lunghissima esperienza di prigionia, ancora più clamorosa, perché aveva coinvolto la sua famiglia di notabili del regime. Fatos era un adolescente quando venne incastrato con un metodo da romanzo spionistico di serie B. La “ratio” era che col presunto traditore bisognava colpire anche i familiari. Il padre, giornalista e direttore della tv di Stato, uomo fidatissimo del regime, era caduto in disgrazia per avere mandato in onda un festival della canzone, sul modello di quello di Sanremo. Finì sotto processo in una delle purghe di quegli anni, quindi espulso dal Partito, licenziato e condannato. L’accusa era di avere cercato di introdurre modelli culturali borghesi. «Toccò poi a mio zio: fu denunciato dalla sua compagna, che fe- ce posizionare dei microfoni in casa – ricorda –. Fu facile manipolare alcune frasi registrate per accusarlo di “agitazione e propaganda”, il reato più generico e sempre invocato in questi casi. Ma questi agenti trovarono anche altro, alcuni miei quaderni in quella casa». Fatos infatti è un artista, ha realizzato quadri e installazioni anche sul periodo della prigionia, e scrive. Fin da ragazzo. «tenevo la bozza di un piccolo romanzo giovanile che si ispirava alla corrente francese d’avanguardia del “Nouveau Roman”, in voga in quegli anni, che spesso era critica nei confronti del potere. I miei appunti furono esaminati da una commissione di esperti, che li giudicarono decadenti e individualisti. Fui condannato a sette anni di reclusione e mandato in un campo di lavori forzati in miniera a Spac. Avevo 23 anni». Ma quello è solo l’inizio del calvario. «A Spac fu montata un’accusa contro un gruppo di prigionieri, miei compagni di lavori forzati, che furono accusati di avere ordito un complotto revisionista all’interno della prigione. Ci fu un processo a porte chiuse, con due condanne a morte. Io fui condannato a ulteriori 18 anni, che scontai in parte a Burrel, la più dura prigione di massima sicurezza, dove incontrai mio padre, per poi uscire di prigione alla caduta del regime, quarantenne, dopo 17 anni di reclusione». Un’altra giovinezza perduta è quella di Vera Bekteshi. Vera è una scrittrice, ha raccolto la sue incredibili esperienze di vittima della paranoia del potere in un libro autobiografico uscito anche in Italia ( La villa con due porte). La sua vicenda va fatta risalire a un’altra purga, che colpì i vertici delle forze armate. Il padre era un generale, allora direttore dell’Istituto studi militari, e finì sotto processo per avere elaborato con altri alti gradi un piano di riorganizzazione delle forze armate, richiesto dallo stesso Hoxha, ma poi ritenuto antipatriottico e sabotatore. Il Ministro della Difesa fu arrestato e, come da procedura, fu convocato il Plenum del Comitato Centrale per decidere sul caso. Mio padre fu giudicato colpevole, espulso dal partito e inviato al confino con tutta la famiglia. La destinazione era Berat, una cittadina ottomana all’interno. Lui fu messo a lavorare in una falegnameria, mia madre in una fabbrica di latte». Vera, che è laureata in fisica, finì invece a lavorare nelle campagne per cinque anni, poi venne impiegata in una cooperativa per altri cinque anni, prorogati di cinque e così via. Anche lei ha avuto esperienze grottesche sui metodi della Sigurimi. La polizia segreta era famosa per l’uso dei microfoni: da qui la frase coniata in quegli anni che «anche i muri hanno le orecchie». Oltre quindi a intercettare conversazioni da usare come prove, questa pratica aveva anche l’effetto psicologico di creare una psicosi nella popolazione, che non si sentiva sicura da nessuna parte. Nemmeno in casa propria. «Ma la tecnologia e la destrezza degli uomini della Sigurimi erano veramente poca cosa – racconta –. Ci siamo accorti di essere spiati grazie al comportamento sospetto di un uomo che andava a veniva dalla casa del medico della comunità, attaccata alla nostra. Lo chiamavamo «lo zoppo nero». Era un agente che passava dal medico per controllare le registrazioni e l’apparecchiatura, collegata in modo rudimentale con dei fili a dei microfoni a casa nostra. Qualche anno fa, ho incontrato quel medico, anch’esso al loro servizio: mi chiese come ci eravamo accorti. Gli ho solo detto: «Semplicemente mio fratello, allora poco più che un bambino, che smontava tutto, li aveva visti sollevando un asse del pavimento. Ma ovviamente ce lo eravamo tenuto per noi». Shkelqim Abazi vive a Berat, una caratteristica cittadina ottomana nell’interno. È sulla settantina edha conosciuto una vicenda drammatica durante la sua prigionia nel campo di lavoro di Spac. Una rivolta di prigionieri che fu seguita da punizioni esemplari. Shkelqim , come molti altri giovani, era nel mirino della polizia politica, che si attivava alla minima segnalazione di riunioni o ritrovi. «Era il 1968, non avevo ancora diciott’anni. D’estate ero solito passare le vacanze a Himarë, una località di riviera vicino a Valona. Lì sono stato fermato con un amico e arrestato con l’accusa di tentativo di espatrio, cosa rigorosamente vietata, ma non vera. Un anno prima avevo partecipato a proteste contro la distruzione di chiese e moschee dopo che l’Albania aveva dichiarato nella sua Costituzione che era una repubblica atea, primo e unico caso al mondo». Shkelqim è semicieco a un occhio e sordo all’orecchio sinistro. Sono le conseguenze degli interrogatori. «Fummo torturati perché volevano farci dire altri nomi. Infatti, più persone la Sigurimi riusciva a imprigionare, maggiore era il successo per lo Stato da esibire pubblicamente. Dopo quattro mesi fummo portati davanti a un giudice, senza un avvocato difensore. Le accuse erano istigazione a sommossa, propaganda antinazionale e tentativo di fuga dal Paese. Fui condannato a dieci anni, ridotti a cinque perché minorenne, e portato nel campo di lavoro di Reps nel distretto di Mirdita, nell’interno». Dopo i cinque anni, arrivò una libertà limitata. «Non ero più in prigione, ma fui comunque obbligato a nuovi lavori forzati per altri cinque anni come compensazione della riduzione in quanto minorenne: finii prima in una fattoria come contadino, poi alla leva militare». Una volta uscito, come ad altri prigionieri politici, a Shkelqim furono interdetti lavori a sua scelta, e obbligato a restare nell’agricoltura. Fino alla vigilia della caduta del regime, nel 1991.