Libri. Dalla Shoah al ruolo degli scrittori: quando il discorso del Nobel è impegnato
L’ultima consegna del Nobel per la Letteratura: nel 2017 a Kazuo Ishiguro / Epa
Perché si scrive? E per chi? Sono domande ricorrenti della letteratura di tutti i tempi: il rapporto fra poesia e pubblico, fra narrativa e mondo circostante, e la responsabilità dello scrittore davanti alle tragedie del proprio tempo emergono sempre, sia che si tratti dei tragici greci che degli autori del XXI secolo. E ancora: il rapporto fra letteratura e potere, che ha fatto spesso degli intellettuali dei testimoni e in alcuni casi dei profeti, capaci di ridefinire concetti come libertà, verità, impegno. La questione dell’engagement torna quasi sempre anche negli interventi pronunciati da chi ha ricevuto il premio Nobel della letteratura e che ora sono stati raccolti da Daniela Padoan nel volume Per amore del mondo (Bompiani, pagine 588, euro 18); la curatrice in realtà ne ha selezionati 29, quelli che ha definito “i discorsi politici” pronunciati da alcuni dei vincitori in occasione del ricevimento del premio. Molti premiati infatti (fa Beckett a Gide, da Hamsun a Canetti) non hanno fatto discorsi o hanno detto solo parole di ringraziamento. Altri ancora, come Montale e Eliot, hanno svolto una riflessione limitata alla propria poetica; infine c’è chi ha scritto un racconto ad hoc, come Coetzee e Jelinek. Padoan ha voluto privilegiare chi ha dimostrato «un sentimento di responsabilità verso il mondo». Colpisce la sudafricana Nadine Gordimer, che nel 1991 ha riflettuto su tutto lo spettro delle questioni sollevate: dal senso della scrittura impegnata alla capacità dell’arte di giungere alla comprensione dell’essere, fino a suggerire un itinerario di quei tanti autori imprigionati o perseguitati. «Lo scrittore – ha detto – può essere utile all’umanità solo se usa la parola anche contro le sue stesse lealtà, solo se crede nella modalità in cui l’essere si rivela, così da trattenere, nella sua complessità, i filamenti della corda della verità che possono essere legati insieme, qua e là, dall’arte». Concetti non dissimili si ritrovano nelle parole di Aleksandr Solženicyn, che nel 1970 non partecipò alla premiazione e fece avere il testo del suo discorso sotto forma di microfilm grazie a un giornalista svedese. La letteratura per lo scrittore russo è l’arma più efficace contro la menzogna del potere. Di qui l’invito all’impegno rivolto ai suoi colleghi: «Avremo la temerarietà di dichiarare che non siamo responsabili delle piaghe del mondo di oggi?».
Gli orrori delle guerre che hanno infestato il Novecento tornano in molti discorsi e certo colpisce la posizione di due premiati italiani: Grazia Deledda, nel 1926, quando il regime fascista aveva già realizzato la svolta totalitaria, preferì non tenere nessun discorso; e Luigi Pirandello, nel 1934, pronunciò solo un breve ringraziamento. Ma non furono i soli. Scrive Padoan nella prefazione: «Nel dicembre 1938, all’indomani della Notte dei cristalli e dell’infuriare dei pogrom nazisti, a ricevere il Nobel fu la statunitense Pearl Buck, che parlò – incongruamente – di letteratura cinese. Nel 1944, mentre le operazioni di sterminio degli ebrei d’Europa giungevano alla fase conclusiva, il Nobel della letteratura andò al danese Johannes V. Jensen, che parlò della classificazione delle specie di Linneo e della teoria dell’evoluzione di Darwin. Nel 1945, la poetessa Gabriela Mistral parlò del Cile. Per ascoltare pa- role in cui risuonassero i fatti che avevano sconvolto l’Europa e il mondo si dovette attendere il discorso di William Faulkner, nel 1949». Da parte sua Thomas Mann, nel 1929, indugiò sulle ferite del popolo tedesco dopo la Grande Guerra, un «popolo incompreso» simboleggiato dalla figura di san Sebastiano, il martire capace di unire «eroismo e grazia nella sofferenza». Non poteva certo immaginare quanto sarebbe accaduto in Germania solo pochissimi anni dopo.
La catastrofe della Shoah è rivissuta con accenti dolorosi nei discorsi di Agnon (1966), Bellow (1976), Singer (1978), Milosz (1980) e Kertész (2002). Quest’ultimo in particolare pone l’Olocausto al vertice degli orrori possibili, «lo stadio terminale della grande avventura cui l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura etica e morale», tutt’altro che «una sbandata unica nella storia»; e condivide il giudizio del poeta cattolico suo connazionale János Pilinszky, che ha definito «uno scandalo» il fatto che la Shoah sia potuta avvenire in un ambito culturale forgiato dal cristianesimo. Altre situazioni di violenza e conflitto tornano a più riprese: dal colombiano García Márquez che nell’82 stigmatizza la repressione delle dittature militari in Sudamerica; il nigeriano Wole Soyinka nel 1986 rammenta come tanti pensatori occidentali hanno considerato l’Africa alla periferia della storia e si augura la fine del regine di apartheid in Sudafrica; il cinese Gao Xingjian (2000) perora la causa di poeti e scrittori uccisi o incarcerati dalla ferocia del regime comunista. Qua e là affiorano anche temi religiosi. Un cenno significativo appare nel testo di Wislawa Szymborska (1996), che pur non essendo particolarmente credente cita l’Ecclesiaste e immagina di conversare con «l’autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano». Stupisce, nel discorso di William Golding (1983), l’autore inglese di un romanzo disperato come Il signore delle mosche, l’apologia della meraviglia del creato. E il suo riferimento alla mistica Giuliana di Norwich che nelle sue meditazioni sul destino del mondo e dell’umanità poteva concludere che «tutto sarà bene».
Ma guardando al futuro i discorsi che avvincono di più sono quelli di Albert Camus (1957) e Svjatlana Aleksievic (2015). L’autore francese, laico ma affascinato da sant’Agostino, sollecita lo scrittore a «non porsi al servizio di quelli che fanno la storia, ma di quelli che la subiscono ». Così la giornalista e scrittrice bielorussa: «A interessarmi è il piccolo uomo, il piccolo grande uomo, perché sono le sofferenze a renderlo grande», ha detto l’autrice di Preghiera per Chernobyl. La loro è una versione postmoderna delle Beatitudini. Dispiace, infine, che nel volume non abbia trovato spazio il discorso del banchetto di François Mauriac, uno dei pochissimi premi Nobel della letteratura a far riferimento esplicito al cristianesimo. Nel 1952 egli disse: «In questa Europa dopo Nietzsche, dove continua a risuonare il grido di Zarathustra “Dio è mor-to!”, che non ha finito di far sentire le sue spaventose conseguenze, tutte le mie creature potrebbero anche non credere che Dio sia vivo, ma sono tutte consapevoli che parte del loro essere conosce il male, e che potrebbe non commetterlo. Sanno cos’è il male. Quando Nietzsche constatò la morte di Dio, ha annunciato allo stesso tempo i giorni che abbiamo vissuto, e anche quelli che abbiamo davanti, quando l’essere umano è svuotato della sua anima, diventando vittima abusata dai nazisti e da tutti coloro che ancor oggi utilizzano metodi nazisti». E concluse: «Questa umanità scristianizzata rimane un’umanità crocifissa ». Un “discorso politico” nel senso più alto della parola.