A quasi 80 anni ha appena pubblicato il suo
opus magnum (
Scientific Objectivity and its Contexts, Springer) e viene celebrato per i suoi 50 anni di attività accademica, ma guarda avanti, nel futuro della filosofia, con l’ottimismo unito all’esperienza e all’autorevolezza. Evandro Agazzi, figura eminente dell’epistemologia contemporanea, formatosi nella tradizione aristotelico-scolastica di Gustavo Bontadini e in quella neoempiristica positivista di Ludovico Geymonat, ha fuso originalmente alcuni aspetti di entrambe in un’amplissima produzione che spazia dalla filosofia della scienza alla metafisica, dalla pedagogia alla bioetica.
Professor Agazzi, lei ha attraversato da protagonista il panorama filosofico italiano e internazionale. Che valutazione complessiva dà oggi del nostro pensiero speculativo? Nota qualche originalità, qualche contributo al dibattito che è ormai globale? «Mi sembra corretto riconoscere che da tempo il "pensiero speculativo" in Italia non gode di particolare favore a causa del forte privilegio accordato alla storia della filosofia (nelle sue varie articolazioni) rispetto alle discipline specificamente teoretiche (la filosofia della scienza, la filosofia morale, l’estetica, la filosofia politica...). Fu una scelta operata subito dopo la Seconda guerra mondiale dalle élites della cultura "laica" (rapidamente diventata egemone in campo accademico, nell’editoria, nel giornalismo) che osteggiava sia la precedente speculazione neoidealista sia le nuove espressioni del pensiero "metafisico" dei neoscolastici e degli spiritualisti cristiani. Detto questo per amor di verità, non possiamo certamente sottovalutare quella particolare simbiosi fra sensibilità speculativa e senso storico che caratterizza la migliore produzione dei filosofi italiani rispetto ai colleghi di altri Paesi, e che ritengo dovrebbe continuare ad essere un pregevole tratto distintivo del nostro modo di filosofare. A ciò si aggiungono i contributi seri e apprezzati che singoli filosofi italiani hanno recato in alcuni dei campi specializzati in cui si è parcellizzata la filosofia e che sono ormai valutati a livello internazionale. Di solito questi studiosi non coincidono con quelli che godono di una maggiore "visibilità" mediatica».
Inutile negare che alcune tradizioni molto forti decenni fa sono tramontate quasi definitivamente (marxismo, esistenzialismo) e altre sono in una fase di ripiegamento. Come vede il pensiero di ispirazione cristiana in un’era che per molti è post-metafisica?«Se si concepisce il pensiero di ispirazione cristiana come la difesa di certe tesi dottrinali presupposte, ritengo che anch’esso sia destinato alla più o meno lenta eclissi che stanno conoscendo tante dottrine filosofiche. Se viceversa vediamo il pensiero cristiano come l’elaborazione di risposte a problemi riguardanti il senso e il valore dell’esistenza quali si impongono all’uomo d’oggi, ritengo che tale ricerca sia tuttora possibile, feconda e capace di interessare. L’ho constatato spesso nei miei lunghi anni di insegnamento anche in università "laiche", dove non ho mai celato, ma neppure proclamato, la mia fede cristiana. Sono convinto che la ricerca dell’Assoluto è oggi non meno forte che un tempo, e che punta nella direzione di un orizzonte di trascendenza proprio perché hanno mostrato la loro incapacità di rispondere ai problemi fondamentali dell’uomo tutte le varie proposte immanentiste e scientiste».
Il "nuovo realismo" le pare una reazione salutare a una lunga fase di postmodernismo e pensiero debole?«In quanto "vecchio realista" non posso che rallegrarmi di riscontrare nel "nuovo realismo" il riaffacciarsi di una posizione filosofica che ho difeso durante tutta la mia vita accademica. Mi sembra interessante il fatto che il mio realismo si presenta come il frutto di un lungo cammino critico attraverso la filosofia della scienza e la filosofia analitica, mentre quello dei "nuovi realisti" alla maniera di Maurizio Ferraris risulta da un analogo transito e superamento critico della tradizione ermeneutica e postmoderna. In fondo, se volessimo indicare un tratto che caratterizza oggi la filosofia italiana nel panorama internazionale potremmo proprio segnalare questa convergente riaffermazione del realismo».
Nei settori di cui lei si occupa maggiormente sembra prevalere un’idea di naturalizzazione della filosofia, che oggi a parere di tanti significa, anche oltre Quine, che la filosofia non può fare altro che accodarsi alla scienza e al suo metodo. Che spazio può trovare e che argomenti può portare una filosofia che voglia dialogare alla pari con la scienza e, anzi, dare indicazioni a quest’ultima?«Se si pensa alla filosofia come a un discorso che si occupa solo di quanto la scienza lascia nel piatto, è chiaro che essa dovrà morire di fame quando le scienze avranno occupato i suoi ultimi rifugi (alcuni credono che le neuroscienze stiano per conquistare anche questo ultimo bastione). Si tratta di una concezione rozzamente positivista, fondata su una metafisica materialista accolta in modo acritico e addirittura inconsapevole, e che si sfalda di fronte ai molti problemi che le scienze non riescono non solo a risolvere, ma neppure a formulare, semplicemente perché nessuna scienza dà spazio a "giudizi di valore" e a indicazioni circa il "dover essere" e il "dover fare". Questi, invece, sono proprio ciò che lo sviluppo delle tecnoscienze impone all’umanità per orientare e gestire responsabilmente il suo presente e il suo futuro, entrando in dialogo e in confronto con le scienze, senza complessi né di inferiorità né di superiorità».
A questo punto del suo significativo percorso filosofico, quali direzioni vede per il prossimo futuro? Quali sono i problemi che, come si dice, resteranno tra noi a lungo?«Ritengo che la filosofia non possa essere un discorso autoreferenziale, ossia limitarsi a "rivisitare" la propria storia . La filosofia si è sempre nutrita di problemi che le varie culture hanno vissuto con particolare acutezza. Oggi la civiltà globale, pluriculturale, pluriconfessionale, fortemente investita dalla tecnoscienza e divisa, di fronte a questa, fra ammirazione e timore, sta lanciando agli uomini sfide di comprensione e riflessione che corrispondono all’essenza più profonda della filosofia. Esse sono "inedite" rispetto al passato, per i loro contenuti, ma non sono affatto dissimili da quelle che, in altri momenti di grandi cambiamenti storici, il pensiero filosofico ha dovuto affrontare di fronte a situazioni che erano inedite per quell’epoca. Forse, quindi, è il caso di parlare di un compito che la filosofia non potrà mai esaurire fin tanto che l’uomo saprà porsi dei "perché?" fondamentali».