Agorà

Lo scrittore. Affinati, il dolore trova riscatto nel discernimento

Eraldo Affinati giovedì 13 agosto 2015
Mio padre era un orfano che non conobbe mai suo padre e vide morire sua madre quando era ancora un bambino. Crebbe sostanzialmente da solo, senza nemmeno una Città dei Ragazzi a prendersi cura di lui. Mia madre, romagnola di Riolo Terme, dopo la fucilazione di mio nonno, partigiano della 36° Brigata Garibaldi, avvenuta il 26 luglio 1944, quindi sei giorni dopo il fallito attentato a Hitler, venne arrestata e messa su un treno che l’avrebbe condotta in Germania o in Polonia, chissà. Ma lei, che a quel tempo aveva diciassette anni, riuscì a scappare alla stazione di Udine in modo rocambolesco, grazie a un uomo che le aveva fatto segno durante la sosta del treno. La prigioniera aveva chiesto di scendere per lavarsi e cambiarsi d’abito. La giovane guardia delle SS, che la scortava in un vagone speciale, imprevedibilmente aveva acconsentito. Bastò la confusione di un altro treno in arrivo a permettere alla ragazza di scantonare e, in quegli istanti cruciali, ritrovare l’uomo che avrebbe dovuto salvarla, il quale la portò infatti subito via in bicicletta. Per due anni mia madre rimase lontana da casa e in balia degli eventi. Sono figlio di due persone che hanno sofferto di uno sradicamento non molto diverso da quello che io cerco di sanare nei miei nuovi studenti. Credo che questi trascorsi spieghino la ragione per cui io sia andato in Africa sulle tracce di Kahliq. Fanno capire fino a che punto la mia spinta, ripeto pedagogica e letteraria, sia volta a risarcire mio padre e mia madre di ciò che loro non ebbero la fortuna di avere. Non sarebbe poi così assurdo supporre che nelle storie difficili dei miei genitori risieda la ragione per cui ho cominciato a leggere, in una casa dove non c’erano libri, ho cominciato a scrivere superando l’ostacolo di una famiglia illetterata alle mie spalle. Forse è lo stesso motivo per cui posso intercettare oggi l’indisciplina, l’amarezza, lo sconforto dei miei studenti forse meglio di chi non ha avuto un’esperienza familiare come la mia. Questa radice oscura mi ha spinto a cercare nella letteratura gli interlocutori che non trovavo nella mia vita di adolescente solitario e un po’ introverso. Se mancano le parole, è quasi impossibile capire il senso dell’esperienza compiuta. Riuscire a raccontare a mio padre e a mia madre quello che loro non furono capaci di dire a se stessi: questa è la funzione rigeneratrice della letteratura. È un grande tema teologico questa idea di noi uomini, con il nostro libero arbitrio, costretti a compiere scelte di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. Mi viene sempre in mente l’ultima scena dei Promessi sposi con Renzo di fronte a un don Rodrigo ormai morente: e questa è proprio una condizione di pianto. La situazione suscita un sentimento di vendetta in Renzo, che in fondo vuole finalmente uccidere il suo persecutore, vuole farsi giustizia da solo. Ma padre Cristoforo gli dice: attenzione, tu non sai il dolore e il pianto del tuo persecutore cosa siano. Tu non puoi sapere da solo che cosa è quel dolore che sta soffrendo don Rodrigo, e perciò devi stare attento, nel momento in cui vuoi risolvere da solo la questione. Noi siamo sempre nella posizione di Renzo, di chi è solo ma ciononostante deve assumersi la responsabilità della scelta attraverso un’opera di discernimento che è sempre rischiosa, ma questa è la condizione umana.