Cinema. Adolfo Celi, 100 anni fa nasceva l'altro eroe dei due mondi
Celi con la moglie Veronica Lazar e i figli Alexandra e Leonardo
Ci sono uomini di cinema che hanno vissuto esistenze che da sole offrono spunti e materiale per decine di film. Uno di questi, è sicuramente Adolfo Celi, di cui il 27 luglio ricorre il centenario della nascita (Messina 1922) e la cui vita purtroppo si è interrotta prima della fine del secondo tempo: a 63 anni, un colpo al suo gran cuore tenero e generoso lo ha fatto uscire di scena. Accadde a Siena, il 19 febbraio 1986, mentre era in tourné teatrale con I misteri di Pietroburgo. «Quella sera lo sostituì il suo amico fraterno Vittorio Gassman con il quale avevano ideato quello che doveva essere il primo di tanti spettacoli da allestire insieme su commissione del Teatro della Toscana», raccontano Alexandra e Leonardo, i due figli che Adolfo Celi ha avuto dalla quarta moglie, l’attrice romena Veronica Lazar a cui Alexandra ha dedicato il documentario Era la più bella di tutti noi. «Il titolo me l’ha ispirato l’ultimo saluto che fece Bernardo Bertolucci (aveva diretto la Lazar da L’ultimo tango a Parigi del 1972, fino all’ultimo Io e te del 2012), quando mamma morì nel 2014 Bernardo disse alla stampa: «Veronica era la più bella di tutti noi».
E solamente l’incontro fra Adolfo e Veronica è un lungometraggio da “giorno della memoria”: storia della giovane profuga appartenente a una famiglia ebrea di Bucarest, «salvata dalla deportazione nazifascista dopo un sogno premonitore» e arrivata per la prima volta a Roma da dove avrebbe dovuto raggiungere Israele. Ma l’incontro con l’affascinante e nobile Celi (figlio del Prefetto di Messina e discendente del Celi Principe di Vadalà) stregarono l’attrice balcanica che rimase per sempre a Roma, e con lui mise su famiglia. Ma non fu l’ultima donna dell’Incontentabile(come il suo personaggio nello spot di Carosello) Adolfo o meglio ancora del Professor Alfeo Sassaroli l’esilarante primario del monicelliano Amici miei. «In quel personaggio del Sassaroli c’è tanto di papà, animo divertente ma inquieto, sempre alla ricerca del grande amore e quindi della “zingarata”.
L’ultima compagna di vita è stata Flaminia Rocchi, ma quando è morto era “single”. Anche se ad assisterlo all’ospedale di Siena nostra madre c’era, lei l’ha amato fino all’ultimo», ricorda Leonardo. E come non amare questo avventuriero che sembra uscito da un racconto di Emilio Salgari. Nel 1948 si imbarca con Aldo Fabrizi per girare un film che già dal titolo si rivelò profetico, Emigrantes. Girato in parte su una nave, Celi fu l’unico del cast che a film finito una volta sbarcato in Argentina rimase a vivere Buenos Aires. «Aveva trovato lavoro in un teatro e da lì poi si spostò nella terra che ha adorato, il Brasile». Quel Paese che trovava «spirituale e selvaggio» gli entrò nel sangue, e il Brasile vedendo sul palco quell’uomo dal fisico imponente, la voce attoriale importante e il carisma autorevole e autoritario lo incoronò nuovo eroe dei due mondi. Adolfo Celi, un uomo per due culture si intitola il documentario realizzato da Leonardo Celi in cui si racconta la straordinaria esperienza brasiliana di suo padre che da Rio de Janeiro viaggiò «in macchina attraversando le spiagge, allora era così», fino a San Paolo dove fondò il TBC, il Teatro Brasileiro de Comèdia. «Era così preso dalla bellezza dei luoghi, dalla potenza della natura che per due anni non diede notizie alla sorella, a Messina, la quale credendolo morto lo fece cercare dall’ambasciatore italiano in Brasile... Quando venne convocato in ambasciata papà credeva che gli conferissero un premio per i successi ottenuti con il TBC: aveva dato lavoro a tanti attori e maestranze locali ma soprattutto aveva fatto conoscere al pubblico brasiliano la bellezza dei testi, fino ad allora a loro ignoti, di Pirandello e Goldoni. Invece l’ambasciatore lo accolse con un serafico: “Ma signor Celi, la vuole fare una telefonata alla sua famiglia che è in pensiero per lei?”», racconta divertita Alexandra. Un’altra scena da commedia all’italiana, ma quella sarebbe venuta dopo le prove brasiliane di Caiçara( 1950) e Tico- Tico no Fubá, film diretti e interpretati dallo stesso Celi che con queste pellicole consolidò la sua fama di «divo italiano in Sudamerica».
Ma per farsi riconoscere nel Vecchio Continente dovrà attendere il 1964 con L’uomo di Rio di Philippe de Broca. Un film che segna anche l’addio al Brasile dove sente di aver chiuso un ciclo e lo scrive in una lettera accorata e sincera all’amico Gassman: «Qui le cose sono cambiate. Mi sento vuoto... Vedo i vostri film e mi sembra straordinaria la vostra vitalità, la vostra franchezza. Il vostro coraggio. Vi vedo coerenti. Voglio tornare ad essere come voi». È la nostalgia dell’ex allievo dell’Accademia d’arte drammatica dove si era diplomato assieme ai ragazzi della classe di ferro del ’22: Luigi Squarzina, Luciano Lucignani e Vittorio Gassman. E con loro due, di ritorno da San Paolo con il film L’alibi( 1969) aveva firmato la sua unica regia italiana. Nel Belpaese ritrova l’amore e gli amici di sempre, come l’altro coscritto Luciano Salce con cui vola in Inghilterra per far nascere i rispettivi figli a riparo dalla legge italiana del tempo. «Io e Emanuele Salce – vincitore dell’ultimo “Premio Adolfo Celi” per il suo splendido lavoro teatrale Diario di un inadeguato ovvero Mumble Mumble Atto II – siamo nati nello stesso ospedale a Londra, dove a me che dovevo essere Alessandra per errore hanno aggiunto la “x” togliendo le due “s”. Se fossimo nati in Italia non avremmo avuto il cognome dei nostri padri che poi rimasero amici per la pelle».
Ma il “grande fratello” di Adolfo Celi è stato il “Mattatore”, Vittorio Gassman. «Tra loro c’era complicità, sano spirito di competizione e stima reciproca. Papà diceva che Vittorio era il “migliore di tutti in tutto ciò che faceva”. Un’intelligenza superiore, traduceva dal latino al greco e la cosa stupiva i miei genitori che comunque parlavano 5 lingue a testa. Vittorio poi, la sera che papà si sentì male, andò a Siena a sostituirlo in teatro, e quello rimane un gesto che fanno solo i fratelli d’arte». Fratelli anche sul set di Mario Monicelli in- Brancaleone alle crociate. In quel decennio che va dal ’65 al ’75 con James Bond Agente 007 - Thunderball (Operazione tuono), Il fantasma della libertà di Luis Buñuel e soprattutto con il film-tv Sandokan, in cui interpreta l’indimenticabile Lord James Brooke, Adolfo Celi assume la caratura, rara per il nostro cinema, di attore internazionale. «Veniva scelto per il suo volto e le sue capacità recitative certo, ma anche per quella predisposizione al viaggio e all’avventura che trasmetteva anche a noi figli, portandoci in Malesia sul set di Sandokan dove aveva tranquillamente vissuto per nove mesi lontano dalla famiglia. “007”, Sean Connery, venne ospite a casa nostra, una villa in affitto sull’Appia antica come si usava fare allora, alla grandeur, e con papà si misero a giocare a golf». Un giocoliere nato, capace di cambiare continuamente ruolo e registro, ma mantenendo sempre quella cifra austera, dal papale Rodrigo Borgia (Alessandro VI nella miniserie della Bbc I Borgia) al giudice di Febbre da cavallo al fianco dell’altro amico fraterno, Gigi Proietti. «Papà incuteva timore, ma in realtà era un uomo dolce, scanzonato, un fatalista. A noi figli ci ripeteva: “Vivete tutto con leggerezza, senza fare drammi, mi raccomando”. E quella leggerezza si respirava d’estate al mare, a Ponza, con Gigi Proietti e i suoi figli che assieme a noi e quelli di Paola Gassman e Ugo Pagliai formavamo una piccola colonia dello spettacolo».
La vita che si mescola sempre alla scena, come quando Celi dopo anni torna in Brasile con tutta la famiglia. «Un viaggio incredibile, ad accoglierci c’era Tonia Carrero, la sua seconda moglie che nel frattempo era diventata una diva delle telenovelas. Ci ospitava nel suo attico di Rio, a Copa Cabana, e tutte le sere organizzava un ricevimento per il ritorno del “grande Adolfo Celi”...». Il ritorno del divo, dell’amico ritrovato, il primo degli Amici miei ad andarsene, così come Gastone Moschin è stato l’ultimo (2017). «Il Melandri, l’architetto – sorride Alexandra – io lo chiamerò sempre così. Grande attore internazionale anche lui. Gastone era un uomo adorabile e quando Leonardo girò il documentario su papà andammo a trovarlo in Umbria. Quando ci ha visti si è commosso. Non aveva tanta voglia di parlare del cinema e del passato, ma disse: “Per Adolfo lo faccio volentieri”. È la stessa sensazione che io e mio fratello proviamo tutti i giorni: parlare di papà lo facciamo volentieri, perché ci aiuta a riempire quel vuoto che ha lasciato e a sentirlo ancora qui, tra noi, così regale, con le spalle dritte e il suo sguardo fiero».