Calcio. Addio Mariolino Corso, stella dell'Inter di Herrera
Mario Corso con la maglia dell'Inter campione d'Italia
I calzettoni abbassati, vizio, vezzo, segno distintivo in omaggio al suo mito, Omar Sivori. La sonnolenta pigrizia dello sguardo, due fessure gli occhi. Il piede, ovviamente mancino. Un piede infarinato di immensa classe, dono divino coltivato nei pomeriggi dell’adolescenza, nel campetto della parrocchia di San Michele Extra, lì dove provò per la prima volta le sue "punizioni a foglia morta" che l’hanno reso celebre. Di cosa parliamo quando parliamo di calcio. Di queste cose qua: magie che diventano ricordi, nostalgia di un tempo felice. La "foglia morta" di Corso era come una poesia di Prévert: c’è sempre un bacio da regalare a qualcuno, c’è sempre un amore fragile a cui appoggiare il proprio futuro. La "foglia morta", dunque: tre passi di rincorsa, pallone che supera la barriera spettinando le inutili chiome di spaventati terzini per poi inabissarsi e placare la propria felice epilessia nell’angolino basso, lì dove il portiere nulla può. Come una foglia che si stacca dal ramo, appunto. Invenzione che ci riporta al brasiliano Didì ma che deve la sua fama ad un piede sinistro. Quello di Mario Corso, Mariolino, che se n’è andato ieri. Il 25 agosto avrebbe compiuto 79 anni. Stava male da tempo, era ricoverato.
Edmondo Berselli l’ha celebrato come «il più beffardo, anarchico, eretico del gol» in Il più mancino dei tiri, c’è Corso - incurvato nell’atto di calciare - in copertina nell’edizione Mondadori, è lui che innesca la narrazione, il "Piede sinistro di Dio" (soprannome affibbiatogli dall’allenatore di Israele dopo un gol in maglia azzurra a Tel Aviv) che semina bellezza e trasforma un campo da calcio in un territorio condiviso, di sentimenti e piccole rivoluzioni. Era arrivato all’Inter con lo sguardo spaurito, pagato 9 milioni di lire. Si era imposto subito, artista che aveva scelto l’esilio sulla fascia. Correva con passettini corti, rapidi e furtivi, come se camminasse sui carboni ardenti, con quel fare silenzioso che hanno le persone perbene. Aveva molte nuvole in testa, serbava - nella sua idea di calcio sbilenca e bellissima - intuizioni dadaiste. Teneva un fisico impiegatizio, gracile, da travet, con le spalle cadenti e l’aria rassegnata, un ciuffetto alla Charlie Brown, da contorno sfumato dietro il vetro di un qualche ufficio. Eppure: quanto talento, quanta magia. Corso non si consegnava mai all’annoiato tran-tran su cui scivolano certe partite, ogni tocco del pallone - ogni carezza - era uno schiaffo alla banalità. Capitò nella più grande Inter di tutti i tempi, quella di Helenio Herrera che impregnò di nerazzurro gli anni Sessanta del calcio e lasciò una traccia indelebile nella memoria collettiva degli italiani. Era un Dream Team, quella favolosa Inter. Una squadra che cominciava come una filastrocca: Sarti, Burgnich, Facchetti. Poi - nel declinare della poesia - dopo Suarez si arrivava a Corso, il corpo estraneo, l’anomalia, il ripudiato - HH ogni anno ne chiedeva la cessione - ma anche il più amato dai Moratti, Angelo e Massimo, padre presidente e figlio tifoso che oggi ricorda: «Era il mio preferito».
Non correva, ciondolava in un dormiveglia di 90 minuti, quasi sotto ipnosi. Aveva un’andatura caracollante, da finto pigro, da chi è distratto da troppe cose per concentrarsi sulla partita. Il dribbling - da fermo - irridente e beffardo, le parabole lunari dei suoi lanci. Non era un atleta, non nel senso che intendiamo oggi. Scansava la fatica, si rifugiava spesso nell’ombra di certi pomeriggi al neon, tipici di quella Milano anni 60, con i Beatles che si esibiscono al Vigorelli e Cochi e Renato che debuttano al Derby, nella bolla di una città che sta vivendo il miracolo italiano, ma per davvero. Con l’Inter vinse tutto quello che si poteva vincere: 4 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali, tutta una vita in nerazzurro - dal 1957 al 1973, sedici anni, 502 partite e 94 gol ufficiali - per poi chiudere con il biennio al Genoa. Fu anche allenatore alla Periferia dell’Impero (Lecce, Catanzaro, Mantova, Barletta), poi nelle giovanili del Napoli e dell’Inter e - per qualche mese - anche in prima squadra, quando - stagione 1985-86 - Ernesto Pellegrini lo chiamò al posto di Ilario Castagner. Solo 23 partite (con 4 gol) in nazionale, in un decennio (1961-1971) segnato da una generazione d’oro, quella di Mazzola e Rivera, di Riva e Bulgarelli. Rimase sempre ai margini dei grandi eventi internazionali degli azzurri, tormentato fu il suo rapporto con i ct di allora, da Fabbri a Valcareggi. Gianni Brera lo chiamava "Mandrake", ma soprattutto "Matto Birago", per una antica leggenda lombarda della matta Biraga rinchiusa nella rocca di Abbiategrasso dai Gonzaga. Brera scrisse anche il celebre slogan: "Corso, participio passato di correre". Eppure: migliaia di interisti andavano a San Siro per vedere Corso, ballerino di prima fila, Divino per acclamazione, dispensatore di felicità assortite. Si racconta che anche Pelè l’avrebbe voluto con sé, nel Santos.
Mario Corso era un uomo timido e riservato, di poche parole, con una vocina flebile che arrivava da lontano. Lo sguardo acquoso celava ricordi antichi, di infanzia dignitosa e contadina. Nel dopo-calcio era rimasto il vecchio ragazzo che aveva segnato un’epoca, chiuso nel suo mondo, alla giusta distanza da ogni emozione, da ogni colpo di vento. Come ogni artista, dissimulava la vita. La prendeva di sguincio, come certe sue punizioni che oggi ci appaiono definitive come un addio, nelle celebri traiettorie che innescate dal talento disegnano arcobaleni nel cielo e poi vanno a planare, con la consolazione di aver lasciato un bel ricordo, cioè tutto quello che ci serve.