Calcio. Gigi Simoni, mister fenomeno di normalità
Ronaldo posa con Gigi Simoni (a destra) al termine del suo primo allenamento con l'Inter, era il 26 luglio 1997
Era un signore d’altri tempi, quando i tempi erano migliori di questi, meno canaglieschi e più inclini a una certa idea di rettitudine. Se ne va Gigi Simoni, aveva 81 anni, a giugno dell’anno scorso un ictus l’aveva costretto al ricovero in ospedale, dove ha passato questi ultimi mesi di vita smarrito in una nebbia dolce e terribile. Lo stile come cifra esistenziale, l’onestà come premessa di ogni rapporto affettivo e professionale, la pulizia del pensiero e di conseguenza delle parole, la mitezza naturale che non scivolava mai nell’arrendevolezza, quello sguardo malinconico che tratteneva la traccia di un dolore indicibile, quella della morte del figlio Adriano: Gigi Simoni ha vissuto 62 anni della sua vita in campo, non ci sono eguali nella storia del nostro calcio.
Nato a Crevalcore, in quel lembo di campagna assolata che sta tra Bologna, Modena e Ferrara; figlio di Leonardo e Iemes, quarto dopo tre femmine, primi calci nello spiazzo di terra battuta davanti all’acquedotto. Quindici anni da professionista da calciatore, da ala sinistra di raccordo, dal 1959 al 1974, da Mantova al Genoa, con Napoli con cui vinse una Coppa Italia, Torino dove guadagnò un paio di convocazioni in nazionale ed ereditò la maglia numero 7 che fu della farfalla granata Gigi Meroni, poi Juventus e Brescia come tappe intermedie. Ma è stato il Simoni allenatore a marcare in profondità il nostro calcio. Ha avuto un solo maestro, Edmondo Fabbri, che lo volle nel Mantova, il “Piccolo Brasile”.
Ha attraversato i suoi trentanove anni in panchina con il passo leggero dell’uomo che vive di calcio, ma è ben consapevole che la vita non è solo calcio. Prima tappa Genoa 1975, ultima Cremonese 2014, sono state 17 le squadre allenate compresa una breve tappa all’estero con il CSKA Sofia. Tutti ricordano - è inevitabile - il suo anno e mezzo all’Inter, gravido di soddisfazioni (la Coppa Uefa vinta nel maggio 1998 nella finale italiana con la Lazio a Parigi) e di delusioni, sì, parliamo di quella partita, Juventus-Inter, in ballo lo scudetto, la spallata di Iuliano a Ronaldo, il rigore negato e vissuto come un’ingiustizia, i nervi di tutti - anche i suoi - che saltano e quel «Si vergogni» urlato ripetutamente all’arbitro Ceccarini, una reazione che rivista oggi è comunque - ebbene sì - signo- rile e composta, rispetto a tanti eccessi sbracati di molti suoi colleghi. Il rapporto con l’Inter si chiuse con una ferita mai rimarginata, l’esonero a fine novembre del ’98, dopo una vittoria in campionato e il passaggio del turno in Champions, nel giorno stesso in cui veniva premiato con la “Panchina d’Oro” come miglior allenatore italiano. Era l’Inter di Ronaldo il Fenomeno, battezzato con uno slogan tra realtà e leggenda: «Dategli la palla e poi correte ad abbracciarlo», disse ai compagni di squadra di Ronie.
Ma è stato molto altro, Simoni. Un allenatore vincente con 7 promozioni dalla B alla A, una promozione dalla C1 alla B, 2 dalla C2 alla C1; un uomo capace di far grande piazze nobili come Genoa e Pisa, e province come Cremona, dove visse stagioni felici negli anni ’90 - era la Cremonese di Domenico Luzzara che si salvò in A per due campionati di fila - impreziosendo il suo percorso con il Trofeo Anglo-Italiano vinto con i grigiorossi a Wembley nel 1993 e tornando - tanto era forte il rapporto anche in veste di presidente. Oggi lo piange tutto l’emiciclo pallonaro, con un affetto che si riserva alle persone perbene, agli uomini di calcio che trattano con rispetto il loro lavoro e camminano negli anni con la schiena dritta.
Aveva un profilo da francobollo, il Gigi Simoni; da giovane e anche negli ultimi tempi, nelle foto che la seconda moglie Monica, che l’ha assistito amorevolmente fino all’ultima ora, girava ad amici, colleghi, ex giocatori che chiedevano notizie. Da piccolo Simoni aveva vissuto in campagna, in mezzo agli animali. Aveva una passione: addestrava piccioni viaggiatori. Saliva nel granaio, li liberava in volo e fantasticava sulle nuvole e sui cieli che i piccioni avrebbero solcato, nel loro viaggiare silenzioso prima di ritrovare la strada di casa. E se c’era un senso in quel viaggiare, la vita che è stata dimostra che quel bambino diventato Gigi Simoni l’aveva colto.