Fino all’ultimo, si è sforzato d’interpretare l’inedita condizione umana ai tempi delle sfide ecologiche. Una riflessione a tutto campo capace di scavalcare gli steccati fra filosofia, antropologia, sociologia e storia delle scienze. Forse anche per questo, da ‘indisciplinato’, il francese Bruno Latour, appena scomparso a 75 anni dopo una lunga malattia, aveva trovato tardivamente nella sua Francia la notorietà che la sua opera attualissima certamente meritava. Ma fra gli addetti ai lavori, nelle scienze umane, era considerato da lustri come un gigante e un ispiratore imprescindibile. Non a caso, era l’autore transalpino più citato nelle riviste scientifiche mondiali, soprattutto anglosassoni.Oltralpe, il successo di pubblico era giunto di recente con un volumetto molto intrigante, tradotto in Italia da Einaudi:
Dove sono? Lezioni di filosofia di un pianeta che cambia. Una sorta di racconto filosofico che prende le mosse da un’interpretazione molto originale de
La Metamorfosi di Kafka, per spiegare che facciamo già i conti con un «cambio di cosmologia imposto dal Nuovo Regime Climatico».Di fatto, sostiene Latour, è come se oggi l’umanità non sapesse più dove vive. Poiché, di fronte alle sfide ecologiche, almeno 4 diverse concezioni del nostro pianeta si scontrano e sovrappongono. Vi è il «pianeta Globalizzazione»: quello dell’economia liberista che tende ancora spesso a negare la fragilità degli ecosistemi. Poi, quello tecno-utopistico dei progetti di fuga dalla Terra. Ma pure quello dei nazionalismi, gettonati da popoli alquanto scombussolati. Quarta opzione: il pianeta degli «extra-moderni», i popoli periferici refrattari all’industrializzazione e che si candidano persino a diventare fonti d’ispirazione per tutti. Come dovrebbero esserlo tanti altri viventi, secondo Latour, a cominciare dalle scaltre termiti, capaci di fabbricarsi un habitat cooperativo probabilmente a prova di cambiamento climatico. A differenza dell’umanità che indugia, annaspa e pare comunque spiazzata dalla rapidità dei cambiamenti in corso. Nel volumetto, vero caso editoriale in Francia, Latour ha dosato pure un certo gusto del paradosso e spruzzate d’ironia. Come apparentemente paradossale era già il titolo della sua prima opera celebre,
Non siamo mai stati moderni (Eleuthera), risalente ai primi anni Novanta, in cui, a partire da osservazioni empiriche sulle pratiche di laboratorio, si postula il carattere «ibrido» del nostro mondo, vieppiù a cavallo fra naturale e artificiale. Fra gli esempi più studiati di questa visione, gli Ogm o le reintroduzioni di specie animali in determinati habitat. Quasi tutte le ultime opere sono state di portata sempre più politica, in chiave d’avvertimenti anche espliciti. Fra queste,
La sfida di Gaia. Il Nuovo Regime climatico (Meltemi), dove l’autore punta l’analisi su un’umanità che non può più osservare la Natura come una cornice stabile e separata dall’agire umano. In realtà, guardandosi allo specchio, l’umanità scopre d’essere una «potenza» che modifica, assieme ad altre, il clima, l’aria, gli oceani, i ghiacciai, il suolo. Così, un mix inestricabile di forze rende il futuro più imprevedibile che mai.Sempre Meltemi ha di recente tradotto pure
Riassemblare il sociale, con prefazione di Franco Farinelli. Un’opera che esplora le conseguenze politiche della «teoria attore-rete»: a dirottare il corso delle cose sono ‘reti’ ibride che saldano i viventi, la materia e idee forti. In quest’ottica, come il connazionale Michel Serres, Latour ha promosso pure l’idea di dare rappresentatività politica ad entità non umane. L’ultimo libro uscito in Francia,
Mémo sur la nouvelle classe écologique (La Découverte), esorta poi l’umanità a perseguire la «prosperità», ma non la crescita della produzione materiale. Credente molto attento all’esegesi e ai legami delle proprie concezioni con la teologia, Latour aveva accolto come una grande svolta l’enciclica
Laudato Si’, definendola «il luogo essenziale di ripresa della predicazione cattolica». Daniele Zappalà