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Letteratura. Addio a Ismail Kadare, il più grande scrittore d'Albania

Daniele Zappalà lunedì 1 luglio 2024

Ismail Kadare

«L’umanità ha fatto molti errori. Ma per fortuna, non si è mai sbagliata su un punto. Prima o poi, si è ricordata sempre dei grandi geni della letteratura, dell’arte e della filosofia. Quelli che hanno espresso la ricchezza spirituale dell’uomo». È quanto aveva dichiarato qualche anno fa Ismail Kadare ad Avvenire, nel suo domicilio parigino del Quartiere Latino, proprio a due passi dal Pantheon dedicato ai «grandi» francesi, direttamente ispirato a quello romano. Ma non avevamo osato chiedergli se questa prossimità urbana lo aiutasse a conservare una vicinanza interiore con l’Italia del suo amatissimo Dante Alighieri, del resto riprodotto in una statua nello stesso quartiere. Forse perché al cospetto del celebrato scrittore albanese, dal ciglio grave fin quasi alla severità e poco incline al sorriso, ciò poteva persino apparire irriverente.

All’età di 88 anni, Kadare se n’è andato, conservando fino all’ultimo le sue convinzioni inscalfibili di testimone del proprio tempo, dopo aver ossequiato per tutta la vita un ideale alto del potere segreto ed eterno delle lettere. Quei tratti consegnati su carta opaca che finiscono per divenire, nei casi migliori, una spia mirabile anche di ciò che non risulta in genere immediatamente visibile, come lo scrittore sosteneva nella stessa intervista: «Quando si vuole definire cos’è l’anima di un popolo, il primo posto dove cercare resta la letteratura. La spiritualità è associata in modo molto naturale alla letteratura. Scrivere è già una vocazione interiore, un misterioso atto di fede. E i grandi scrittori hanno coscienza di questo magnifico mistero. Sanno di non sapere».

A lungo nella rosa dei candidati al Nobel, Kadare ha spesso descritto la sua Albania e i Balcani adottando uno stile onirico e particolarmente immaginifico: «Una delle astuzie più antiche della letteratura», soleva dire.

Aveva sempre creduto nel «substrato comune» culturale e spirituale dei popoli balcanici, biasimando le divisioni che non hanno mai smesso di lacerare la regione, anche prima dell’incubo dei grandi totalitarismi novecenteschi. A proposito di questi ultimi, Kadare amava dire che la letteratura non può da sola divenire un antidoto. Ma durante e dopo simili cataclismi della storia, le lettere restano comunque un «alimento» indispensabile per resistere e non smarrire mai la strada dell’umanesimo. Proprio per questo, lo scrittore riteneva ad esempio che «dopo i fascismi e il comunismo, Dante è divenuto nel XX secolo ancora più attuale che in passato». Anzi, una «lettura indispensabile» in tutto il mondo postcomunista. Dunque, pure nell’Albania dalla quale Kadare aveva voluto simbolicamente allontanarsi nel 1990, ottenendo l’asilo politico in Francia ed esprimendo anche così il proprio dissenso verso Tirana. Al sommo poeta, Kadare ha dedicato il pamphlet Dante, l’inevitabile (Fandango), sorta di panoramica della storia albanese rivisitata attraverso le grandi ‘chiavi’ dell’opera dantesca.

Nato nel 1936 ad Argirocastro, piccolo centro dell’Albania meridionale, Kadare si dedicò fin da giovanissimo al giornalismo e alla poesia, captando l’attenzione internazionale già con il suo primo romanzo, Il generale dell’armata morta, uscito nel 1963, edito in Italia da Longanesi (poi, Tea e Corbaccio) e divenuto nel 1983 un film diretto da Luciano Tovoli, con Marcello Mastroianni e Michel Piccoli: la storia di un generale e un cappellano dell’esercito italiano incaricati di ritrovare i resti dei caduti italiani in Albania. Fra le righe, un’accorata denuncia della follia di ogni guerra pronta a ‘seppellire’ nello stesso fango l’anima di vincitori e vinti.

Autore prolifico, vedrà molte delle sue opere censurate dal regime comunista, non rinunciando per questo a continuare per decenni a impiegare le «astuzie» della narrazione per evidenziare dall’interno le miserie dell’umanità in preda alle ideologie. Fra questi romanzi di coraggiosa denuncia politica a lungo messi al bando, spicca Il Palazzo dei sogni (proposto in Italia da Longanesi, poi da Tea e da La Nave di Teseo), in cui il protagonista Mark Alemi, turco naturalizzato d’origine albanese, si ritrova catapultato all’interno della misteriosa istituzione centrale ottomana in cui dei solerti funzionari imperiali selezionano e interpretano i sogni dei sudditi per controllare la popolazione. Un’altra potente allegoria politica è offerta in Il Mostro (Fandango), costruito su un parallelismo narrativo affascinante con l’omerico assedio di Troia. Fra i romanzi che hanno contribuito alla fama di Kadare, segnati spesso pure da una sottile ironia corrosiva, si debbono ricordare pure I Tamburi della pioggia (Longanesi, poi Tea, Corbaccio e Fabbri) e Aprile spezzato (Guanda, poi Longanesi e La Nave di Teseo). In epoca più recente, la narrazione si fa particolarmente intima in La Bambola (La Nave di Teseo), in cui lo scrittore rievoca la figura della madre. Nella produzione saggistica, oltre a diversi scritti sull’Albania, figura pure l’originale riflessione Eschilo, il gran perdente (Besa Muci).

Divenuto uno degli autori ‘antitotalitari’ più emblematici del Novecento, Kadare si è nondimeno sempre mostrato allergico all’etichetta ristrettiva d’intellettuale ‘impegnato’: «In realtà, la grande letteratura è come un alimento dove si ritrovano tutte le vitamine. L’unico vero impegno, per così dire, sta in questa completezza e armonia. Come scrittore, aspiro a conoscere innanzitutto questo tipo d’impegno», ci aveva confessato, ammettendo pure di non farsi troppe illusioni sulla capacità immediata dell’arte letteraria di cambiare la storia umana. Nondimeno, la letteratura «può influenzare e soprattutto preparare grandi cambiamenti di ampio respiro», conservando il potenziale di «contribuire all’emancipazione dell’umanità».

Fra i tanti riconoscimenti ottenuti lungo i decenni, si possono ricordare i premi Cino Del Duca, Grinzane Cavour, Herder, Flaiano, Principe delle Asturie, Nonino, Neustadt, oltre al Man Booker international prize e al Jerusalem prize.