Editoria. Addio a Ernesto Ferrero, premio Strega e guida del Salone del Libro
Ernesto Ferrero
Alcuni lo riconoscevano dall’inseparabile cravatta in maglina, altri dall’impeccabile fiore di carta stampata che si appuntava all’occhiello quando dirigeva il Salone del Libro. Tutti, immancabilmente, ricordavano senza esitazione il suo sorriso da gentiluomo, blasé quanto basta per un torinese di stretta osservanza come è stato Ernesto Ferrero, morto oggi in quella che non era solo la sua città natale (a Torino, a ogni buon conto, era nato il 6 maggio 1938), ma la città della sua vita. Se mai gli fosse toccato in sorte di venire al mondo altrove, è comunque a Torino che sarebbe arrivato, prima o poi. Con la cravatta in maglina, il fiore di carta e il sorriso di chi ha letto tutti i libri eppure, a dispetto del pessimismo di Mallarmé, non si è affatto intristito.
Da dove venisse l’energia di Ferrero è un piccolo mistero destinato a rimanere insoluto. Negli ultimi tempi, mentre la malattia lo stringeva sempre più d’assedio, si era fatto più snello e, se possibile, ancora più elegante. Ma continuava a scrivere, studiare, lavorare. C’era in lui qualcosa del Gatto del Cheshire descritto da Lewis Carroll in Alice nel Paese delle Meraviglie: lo Stregatto incantato, capace di svanire nell’aria lasciando aleggiare il suo sorriso. Può darsi che la forza di Ferrero venisse da lì, dall’esercizio di una serietà leggerissima, quintessenza della virtù che l’amico Italo Calvino raccomandava di conservare nel millennio a venire, che è poi è questo nostro millennio, il tempo tormentato che Ferrero ha saputo abitare con la discrezione e la passione di un ospite riconoscente.
L’energia, dicevamo, la forza. Fra i tanti ricordi che la figura di Ferrero sollecita, ce n’è uno che risale al fatidico anno 2000. A Torino (e dove, sennò?) si presenta la nuova edizione del Salone, prende la parola il massiccio, quasi plantigrado Giuseppe Pontiggia, che della manifestazione era uno dei consulenti, e se ne esce con una considerazione ammirata: «Ma io non lo so, come fa Ferrero a fare tutte queste cose. Dirige il Salone e intanto riesce a scrivere un libro come questo che sta per uscire da Einaudi. È bellissimo, ve lo garantisco. Non so come fa, davvero». Il romanzo si intitolava N., reinventava l’esilio di Napoleone all’Elba, si assicurò una raffica di premi, Strega compreso, fu tradotto in mezzo mondo, nel 2006 Paolo Virzì ne trasse un film, ma Ferrero ne parlava con il dovuto distacco, come di un’impresa compiuta da un altro. A deliziarlo, una volta, fu la foto inviatagli da una libreria di Copenaghen, che metteva in bella mostra un alfabeto composto di copertine. Lo spazio tra la M e la O era occupato dal libro di Ferrero, che se ne proclamò onorato.
Nascita a Torino (ma questo lo abbiamo già detto), approdo all’Einaudi nel 1963, giusto in tempo per essere censito nelle cronache come l’addetto stampa ragazzino che accompagna Primo Levi a Venezia per ritirare il premio Campiello, che proprio quell’anno inizia la sua storia. Ferrero è già un intellettuale di buone letture. La sua passione per la potenza e le bizzarrie del linguaggio lo porterà a studiare Gadda, a compilare un formidabile regesto dei codici della malavita (prima uscita nel 1972, edizione definitiva nel 1991 come Dizionario storico dei gerghi italiani) e a tradurre l’intraducibile Louis-Ferdinand Céline, in particolare Viaggio al termine della notte. Nondimeno, quando scriveva per conto proprio, Ferrero si atteneva a uno stile cristallino, sorvegliatissimo, che poco o nulla concedeva all’emotività. Anche le pagine che in I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005) rievocano l’incontro con l’amatissima moglie Carla sono contraddistinte da un pudore che sconfina nella reticenza.
Maestri di misura erano, del resto, i suoi maestri che, come già accennato, erano anche amici. Primo Levi, di cui curò l’opera omnia, e Calvino, al quale ha dedicato il recentissimo Italo (Einaudi), che all’improvviso assume il significato di un testamento. È dell’anno scorso un altro libro, Album di famiglia, pubblicato sempre da Einaudi e della stessa casa editrice sorta di biografia non autorizzata. In Einaudi Ferrero era rimasto fino al 1989, continuando poi la sua carriera editoriale in Bollati Boringhieri, Garzanti, Mondadori. Nel 1998 era stato chiamato a dirigere il Salone del Libro di Torino, che all’epoca attraversava un periodo di grave incertezza. Durato fino al 2016, quell’impegno è stato il capolavoro della sua esperienza manageriale. Sotto la sua guida il Salone – che nel frattempo ha guadagnato la qualifica di “internazionale” – si è imposto come laboratorio di idee e di confronto, in un moltiplicarsi di iniziative dietro le quali, a ben vedere, si ritrovava sempre l’ombra protettiva di Ferrero.
In mezzo a tutto questo, non si sa come, Ferrero scriveva libri eccentrici e sempre riconoscibili, abilmente sospesi tra invenzione e documento. Da L’anno dell’Indiano, ironica fantasmagoria su un’identità contraffatta, a Disegnare il vento, che ha per protagonista Emilio Salgari, i suoi romanzi prendono spunto dalla realtà e la trasfigurano in racconto, servendosi di una prosa limpida. La sua petite musique – per riprendere la celebre definizione dello stesso Céline – giocava sul fascino dell’implicito e, insieme, sull’esattezza del poco che sapientemente veniva rivelato. Aveva scritto molto, Ernesto Ferrero, e sempre molto bene. A tutti i suoi libri aveva riservato un’attenzione scrupolosa, ma a uno di essi era legato in maniera singolare. Si tratta di Francesco e il Sultano (Einaudi, 2019), resoconto minuzioso e sognante dell’incontro che avrebbe potuto cambiare il mondo. Ferrero era persuaso che, se non altro, aveva cambiato il Poverello, ma questa era una sua sensazione, per una volta priva di riscontri. La passione con cui ne parlava faceva venir voglia di dargli ragione. I suoi funerali si svolgeranno giovedì alle 11 nella chiesa della Madonna del Pilone, in corso Casale, dove Torino inizia a salire verso i colli.