Milano. Addio a Enzo Mari, maestro del design come etica
Il designer Enzo Mari (1932-2020) nel 2015
Difficile sottostimare il peso di Enzo Mari, scomparso oggi a 88 anni all'ospedale San Raffaele di Milano, nella storia del design italiano – e quindi internazionale. Un peso che non è legato soltanto ai pezzi progettati dalla fine degli anni 50, quella stagione gloriosa in cui davvero il design entra nelle case di tutti gli italiani costruendo l’immaginario di massa della modernità quotidiana: un’attività che lo ha premiato cinque volte con il Compasso d’Oro (l’ultimo nel 2011 alla carriera), e celebrata a Milano in una mostra in Triennale aperta proprio pochi giorni fa. Ma soprattutto per il suo portato ideale, una filosofia che potremmo definire persino del non-design: lo scopo del progetto non è l’oggetto ma la vita con cui l’oggetto si troverà a interagire. Il design come etica e come politica. "Mari non è un designer – diceva di lui il suo collega, per molti versi antitetico e complementare, Alessandro Mendini – se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa”.
Enzo Mari, "Formosa", 1963, calendario perpetuo da parete, Danese. Opera esposta nella mostra "Enzo Mari", Milano Triennale (17 ottobre 2020 - 21 aprile 2021) - Danese Milano
Barba lunga e folta, più da alpinista e boscaiolo che da filosofo, Enzo Mari incarnava anche un pezzo di storia italiana ormai definitivamente chiusa. Era nato nel 1932 a Cerano (patria del grande pittore seicentesco con cui ha condiviso, quasi frutto di un dna territoriale, la potenza di un realismo persino pauperista), nel Novarese. La famiglia è poverissima, Enzo sgobba duro fino ai 14 anni, fa di tutto e a lungo: “I primi soldi – diceva – li ho visti a 40 anni”. A Brera si iscrive quando può, nel ’52, ma la sua vera scuola è la “Milano semidistrutta, io, che giro ancora con i calzoni corti, mi rendo disponibile a qualsiasi attività. Dico sempre che sì, sì, sono capace, poi la notte prima cerco di individuare qual è il segreto di quella tecnica. Un atteggiamento che non ho più abbandonato”. Anche sull’università avrà sempre opinioni controcorrente (per quanto abbia insegnato al Politecnico di Milano e all’Università di Parma), indicando come suoi soli maestri “Platone, che ha descritto l’orizzonte dell’utopia e dell’etica, e il suo allievo Aristotele, che ha rivendicato l’importanza della materia. Da questa dialettica deriva la comprensione del mondo”.
Enzo Mari, "16 animali", 1957, gioco didattico a incastro prodotto da Danese. Opera esposta nella mostra "Enzo Mari", Milano Triennale (17 ottobre 2020 - 21 aprile 2021) - Federico Villa
Nella Milano degli anni ’50 Mari conosce Bruno Munari, del quale condivide l’idea di una dimensione ludica e interattiva dell’arte, la centralità del processo prima del risultato attraverso la collaborazione del “fruitore”. “Il nostro scopo è fare di te un partner” è lo slogan di Mari negli anni 50. Anche in questo senso si può interpretare la produzione in apparenza più tradizionale, come il calendario perpetuo a parete Formosa (Danese, 1963), che chiede di essere manipolato per restare aggiornato. Il centrotavola Putrella (Danese, 1958), una vera e propria putrella leggermente piegata, appartiene alla categoria del realismo lombardo.
Enzo Mari, Modello A dalla "Serie putrella", vassoio in ferro naturale, Danese. Opera esposta nella mostra "Enzo Mari", Milano Triennale (17 ottobre 2020 - 21 aprile 2021) - Fabio e Sergio Grazzani/Danese Milano
Mari è anche capace di oggetti di estrema eleganza, come le sedie Sof Sof (Driade, 1972) e Delfina (Rexite, 1974). Ma è Proposta per un’autoprogettazione, del 1974 a rivelare l’aspetto più autentico e radicale di Mari. Si tratta di un libro che conteneva una serie di istruzioni per 19 mobili (nove tavoli, tre sedie, una panca, una libreria, un armadio e quattro letti), pubblicate sotto forma di piani di taglio e disegni assonometrici. Un vero e proprio manifesto, il testo di Mari esponeva il tema da lui considerato centrale nella produzione industriale: il rapporto qualità-quantità, la qualità definita come quando la forma di un prodotto non "sembra" ma semplicemente "è".
Il progetto del designer saltava la mediazione dell’industria per arrivare direttamente all’utente, che ne diventava materialmente il produttore, con la possibilità di integrare e/o modificare il progetto. Un’opera aperta, una “utopia democratica”, pienamente corrispondente all’umore degli anni Settanta. Mari intuiva il rischio, poi resosi concreto, della trasformazione del design in formula elitaria, della mutazione del progetto in merce.
Multiplo con i componenti per la realizzazione di un modello in scala 1:5 della Sedia P, Corraini Edizioni, Mantova (riedizione da "Proposta per un'autoprogettazione"). Archivio E. Mari, Comune di Milano, CASVA. Opera esposta nella mostra "Enzo Mari", Milano Triennale (17 ottobre 2020 - 21 aprile 2021) - Triennale Milano
Sono temi che ritornano centrali in 25 modi per piantare un chiodo, una sorta di autobiografia pubblicata nel 2011 e un j’accuse al sistema del design contemporaneo: “I designer sono i primi tra i miei nemici. Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato. Poi c'è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti solo per durare qualche mese... Non servono a chi li acquista ma a chi li produce per fare profitto”. Mari specificava di non essere “contro il meccanismo industriale in sé, ma contro la sua degenerazione, che di fatto chiude le porte non solo ad una reale sperimentazione ma al dichiarare e promuovere la qualità della vita”.
L’etica è nel progetto, non nel prodotto: “Sono sempre convinto che industria e design non possono non tener conto della parola égalité, uguaglianza - una parola fondamentale, tanto da occupare il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - ma come fare a progettare una cosa “bella e buona” per tutti, comprensibile e apprezzabile da tutti, anziché farla restare patrimonio di una piccola élite?".
Tutto questo era possibile perché per Mari il progettare aveva mantenuto sempre la stessa urgenza, la stessa natura di pulsione primaria (“come l’istinto di sopravvivenza, la fame e il sesso”): “Per me progettare è una condizione emozionale, e allo stesso tempo assolutamente razionale, che mi accompagna fin da quando ero ragazzo e mi ha spinto a migliorarmi continuamente per migliorare ciò che mi circonda”. E così diceva in un’intervista-incontro con un piccolo gruppo di neolaureati in disegno industriale: “Volete sapere chi sono i miei veri committenti? Sette miliardi e mezzo di persone, tutti gli abitanti della Terra. Non pensate al piccolo gruppo, al negozio sofisticato di design. Siate umani, fate quel poco che riuscite a fare. Ma fatelo per tutti”.
La storica dell' arte Lea Vergine ritratta nella sua casa a Milano - Nicola Marfisi/Fotogramma
Il giorno dopo la morte di Mari è scomparsa anche la moglie Lea Vergine, una delle figure più importanti della critica d’arte in Italia. Entrambi erano ricoverati al San Raffaele di Milano a causa del Covid-19. Lea Vergine – al secolo Lea Buoncristiano – era nata a Napoli nel 1938 ma si era stabilita a Milano negli anni 70. Il suo contributo principale è quello legato allo studio, in tempo reale, della nascita e dello sviluppo del fenomeno performativo, confluito nel fondamentale Il corpo come linguaggio (La “Body-art” e storie simili) (1974, aggiornato nel 2000). La sua attività critica si è connotata anche per il femminismo militante. A questo proposito spicca la mostra pionieristica “L’altra metà dell’avanguardia”, a Palazzo Reale a Milano nel 1980 (e poi transitata anche a Roma e Stoccolma). Nell’allestimento di Achille Castiglioni il percorso presentava le opere di oltre cento artiste attive all’interno dei movimenti d’avanguardia d’inizio Novecento ma assenti dalla storiografia ufficiale.