Letteratura. Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio»
Una preghiera, prima dell’addio dolceamaro: chi non l’ha mai conosciuta, né sentita nominare prima, da oggi provi a cercare, ma soprattutto a leggere, i libri di Elena Bono. A 93 anni (era nata a Sonnino - Latina - nel 1921) all’ospedale di Lavagna nella serata di mercoledì è volata via la voce femminile (segue di poco l’addio a Eugenio Corti) più originale e anche la più “dimenticata” della letteratura di matrice cattolica.«Una notte che ero molto malata, improvvisamente, aprii gli occhi e vidi di spalle una figura umana. Pensai sgomenta: hanno fatto del male a quest’Uomo... Lo riconobbi: era Gesù flagellato. Il suo volto raccoglieva tutto il dolore del mondo. Da quello sguardo è scaturito Morte di Adamo ». Così, poco tempo fa Elena Bono spiegò ad “Avvenire” la gestazione di quel libro epocale, edito da Garzanti nel 1956 e poi finito ingiustamente nel dimenticatoio. Una perla d’autentica narrativa a sfondo religioso (come tutti gli otto racconti biblico- evangelici che lo compongono) che Emilio Cecchi salutò come un capolavoro: «Vent’anni in anticipo – scrisse il critico – sul Quinto Evangelio di Mario Pomilio (pubblicato nel 1975) e su tutto il filone da esso discendente delle riscritture della Buona Novella».Una poetica in odore di misticismo quella della Bono, convinta dal profondo del suo buon cuore di non aver mai scritto un solo rigo, della vasta e ancora ignota bibliografia, se non sotto dettatura della “Voce”. «È quella “Voce” che mi presenta i personaggi dei miei libri e io ho solo il compito di decifrare i loro pensieri, le diverse lingue in cui si esprimono per poi trascriverle », raccontava dal suo piccolo regno di ricordi santi e civili: la palazzina liberty affacciata sul mare di Chiavari, dove oggi - alle 15.30 - nella cattedrale di Nostra Signora Dell’Orto si celebreranno i funerali.Con estrema lucidità, seduta alla poltrona del suo salotto letterario (l’unico salotto che ha frequentato) amava incontrare le persone desiderose di confrontarsi con la «Storia» che l’aveva vista impegnata in prima linea come “poetessa della Resistenza”. Memorie partigiane che racconta nel Fanuel Nuti che non si può non far leggere nelle scuole. «Con la mia trilogia Uomo e superuomo (conclusa dal tomo del Fanuel Nuti) ho voluto raccontare anche la guerra vista dalla parte tedesca». La sua lunga notte del 1943, rivive nei versi struggenti della raccolta I galli notturni (Garzanti 1952): «Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare». LuchinoVisconti guardò con vivo interesse al testo del romanzo Una valigia di cuoio nero, al punto da volerne fare un film. «Poi non se ne fece nulla, ma una sera, a casa di Emilio Cecchi, Visconti disse che il mio Ippolito (testo teatrale edito da Garzanti nel 1954) gli aveva ispirato il personaggio di Rocco per Rocco e i suoi fratelli», raccontava orgogliosa la Bono che amava il cinema, così come ha sempre avuto una spiccata simpatia per i giovani venendone ricambiata. Lo dimostrano le tesi di laurea, che in questi anni cominciano a a proliferare. Merito anche delle faticose ristampe dei suoi libri, a opera della piccola e generosa casa editrice di Francangelo Scapolla, Le Mani di Recco, che dagli anni ’80 ha pubblicato l’opera omnia di colei che non amava sentirsi chiamare “autrice”.Eppure proprio ora che ci lascia si segnalano in aumento le voci critiche che la considerano tale: «Autrice con la “A” maiuscola», dice la ricercatrice Stefania Segatori, che con Giuseppe Langella, docente all’Università Cattolica di Milano, da tre anni sta curando una biografia monumentale sulla figura e le opere della Bono. Oggi, assieme ai suoi pochi ma resistenti lettori, la piangono le traduttrici Isabel Quigley (inglese), Georges Piroué (francese), Marta Bertelli (francese), Febo Delfi (greco), Nanny Nilsson (svedese), Jaime Berenguer Amenos (spagnolo), Jorge de Sena (portoghese), Issa Naouri (arabo). «Loro testimoniano quanto Elena sia forse stata più apprezzata all’estero che non in Italia», spiega Stefania Venturino, amica e sodale della Bono, con cui collabora fin dal 1990 per la riscoperta e la valorizzazione della sua opera letteraria (vedi il sito da lei realizzato: www.elenabono.it). Un vuoto da colmare creato dalla critica irregimentata degli anni ’50 che nella Bono, come ha sottolineato il critico Giovanni Casoli, vide una «ex lege, fuori dall’industria culturale».La Garzanti all’epoca, nonostante le buone recensioni di Morte d’Adamo preferì puntare tutto su Pier Paolo Pasolini, il quale quando lesse il testo teatrale La testa del Profeta (pubblicato nel 1965): anche lui, come Visconti, voleva portarlo sul grande schermo. Ma la Bono, fiera, sia pur con rispetto, rispose negativamente: «Mi pare che ognuno debba andare, quindi ognuno vada per la sua strada...».Non era rancorosa, ma ferma e coerente con le sue idee, sorretta fino all’ultimo soffio di vita da una fede profonda. Una spiritualità vissuta a pieno da terziaria francescana che gli faceva dire: «Senza l’esperienza religiosa, l’uomo è una bestia, allora tanto vale non essere mai nati». Era nata per incantare e parlare con gli angeli, e invece gli è toccato un destino dolceamaro come questo ricordo, di donna che ha dovuto combattere tra pene e oblio per non diventare un’ombra agli occhi della pubblica ottusità.Per il suo contributo letterario e per aver combattuto contro tutte le banalità del male del secolo scorso, anche per il vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca merita il giusto, anche se tardivo, riconoscimento: «Sappiamo che subito, la sua morte ci invita a riprendere in mano le sue pagine, dove non ci sono parole di troppo e dove è raccolto tutto il viaggio esaltante dell’uomo e il suo dialogo drammatico con il Mistero».